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CICLOTURISMO: Di salita in salita sui colli bolognesi

Non ho mai sopportato le partenze in salita, le ho sempre evitate, cercando prima di scaldare la gamba con un po’ di sana pianura.

Trasferito su un colle queste partenze pensavo di poterle evitare, la partenza in discesa è obbligata, ma la vita porta cambiamenti, a volte forzati, a volte cercati, e così anche la partenza in salita diventa bella e possibile, nonostante la discesa iniziale scendendo dal primo colle tra la Padana Pianura e il lungo Appennino.

Pochi chilometri e per cambiare valle salgo subito. Mongiorgio e i suoi tre tornanti che conducono verso il Castello, lo sorpassano, aprono brevemente la visuale sulla pianura e si tuffano verso la valle del Lavino, gelata in un mattino di Aprile.

Pedalo senza spingere, agile mi preparo a salire costante da Calderino a Molino e poi su verso Mongardino, che è stata per anni la mia salita del risveglio e il mio riscaldamento. In cima svolto a sinistra e non scendo, continuo a salire dolcemente sul crinale fin dove la collina si separa e da una parte mostra gli Appennini e dall’altra Casalecchio e Bologna, San Martino e San Luca bagnati dal Reno, in un balcone naturale che per me è una delle più belle visuali per ammirare Bologna.

Il contrafforte

 

Discesa veloce tra buche e crêpe, da Nughereto verso San Biagio, pochi minuti per far controllare lo sterzo a Paolo, con i nostri discorsi, i nostri sogni e il nostro poco tempo per realizzarli, e via di nuovo in Porrettana, Sasso Marconi circumnavigato e la parete di Badolo ad assistere la mia scalata, lenta ma più veloce delle ultime volte. Una ragazza proprio sotto il Contrafforte Pliocenico zigzaga mentre si fa un selfie. La smarco, la saluto e continuo a salire, scendo e risalgo verso le Ganzole mentre un gruppo illegale di amici si sfidano in senso opposto. Saluto pisciatori ciclistici alle Ganzole e mi involò verso Pian di Macina. Alla rotonda salgo lungo il fondo Savena verso Pianoro, il vento mi respinge, io lo assecondo mangiando una barretta e all’ingresso del paese svolto a destra verso Molino Nuovo e andando a prendere Brento da questa bella e tranquilla variante.

 

La strada sale verso Brento

 

Brento salita vera, affascinante e carogna allo stesso tempo, si arrampica sull’altro versante del contrafforte, si attorciglia su Monte Adone senza arrivare alla cima ma salendo abbastanza per far soffrire le gambe.

La percorro sicuro di non trovare nessuno e invece in diversi salgono e anche le automobili non mancano con i loro scarichi, le troppe sicurezze, ma anche, per fortuna non fatali, insicurezze.

Arrivo al paese, un gruppetto è fermo fuori dall’osteria, io passo e tiro dritto, passo anche l’incrocio per Badolo e scendo brevemente cominciando ad arrampicarmi verso Monterumici. I suoi strappi al venti per cento sono gradoni molto faticosi, raggiungo un signore che mi si incolla a ruota mentre da dietro il gruppo dell’osteria cerca vanamente di raggiungermi, nonostante la mia precaria forma li lascio dietro ad arrancare anche nella dura esse finale.

Non mi fermo e mi butto verso Vado, attraverso il bel centro storico e la fondavalle del Setta e mi dirigo verso la Gardeletta. Il sole che ogni tanto faceva la sua comparsa bucando le nuvole e scaldandomi anche eccessivamente non si farà più vedere. Il vento si alza e spira forte e raggiungere l’inizio della salita che da Quercia arriva a Monte Sole diventa più faticoso dell’arrivare in cima.

Le prime gocce di pioggia puntinano la strada senza farsi sentire sul mio corpo, all’inizio dell’ultimo chilometro è completamente bagnata, salgo faticando ma non piantato, sento delle voci e mi volto. Davanti c’è qualcuno, li ho visti da lontano, nella loro magrezza nel drittone di Quercia e sicuramente non li prenderò mai. Mi volto ma non vedo nessuno e comincio a pensare che la fatica sia molta di più di quella che sento. Forse quelle voci sono proprio le mie fatiche.

Il campo prima di Monte Sole

Arrivo in cima, la pioggia cade convinta e bagna il campo fiorito di giallo vestito che riluce nel buio delle nubi. Mi fermo davanti al Cristo di Monte Sole quando sento salutare. Sí avevo qualcuno dietro e anche qualcuno di conosciuto. Mauro e Stefano, coppia fissa del Bike Studio è da un po’ che non li vedo, ci salutiamo e cominciamo a scendere prudenti verso Pian di Venola per salire poi a Vedegheto. Il mio piano era salire agilissimo e soprattutto pianissimo, vista la compagnia so già non sarà così.

Invece i ragazzi sono clementi, sicuramente più del meteo che ci rovescia addosso troppe inaspettate gocce di pioggia.

Sono strano, lo so, eppure queste giornate per me sono le migliori per uscire in bicicletta. Nuvole che viaggiano veloci in cielo, il sole che gioca a nascondino e ogni tanto scalda con i suoi raggi e all’improvviso le tenebre a oscurarlo e a nasconderlo per tutta la giornata, con la pioggia fine che accarezza il corpo senza però renderlo completamente fradicio. Sento il pedalare esaltarsi, sento il corpo rinvigorirsi e la mente svuotarsi delle tensioni quotidiane lavate dalla pioggia che cade.

I “quasi amici” che tirano un po’ troppo…

Stefano dopo essersi lamentato tutta la salita che la gamba non girava negli ultimi due chilometri comincia a spingere. Provo a borbottare qualcosa poi desisto e gli lascio qualche metro. Mauro di fianco a lui sembra passeggiare, finché ad un certo punto Stefano molla e comincia a parlarci della spesa fatta il giorno prima al caseificio Bortolani in cima alla salita che stiamo pedalando. Ricotte, Grana, panna cotta, per fortuna sono vicino a casa, saluto i ragazzi che scendono verso Monte Pastore e mi involo verso Savigno.

La strada è bagnata ma non piove più, la discesa è veloce e le poche curve le affronto in sicurezza senza dover rallentare troppo. Scendo dal Malcantone, sfioro Savigno e con agilità salgo Zappolino, svolto a destra verso la Chiesa e mi alzo sui pedali proprio sullo scolo dell’acqua. La ruota squilla e la gamba gira violenta per due volte senza però trascinare la bici, che dritta continua la sua strada. Rimango in sella per miracolo e con passo da rosario arrivo in cima alla Chiesa sbarrata.

Cadere dopo 120 km, e quasi 2500 metri di dislivello, a 10 metri dalla porta di casa sarebbe stato veramente troppo.

Foto di Enrico Pasini

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