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APPENNINO: “Due centelli” in bici

 

Testo e foto di Enrico Pasini

 

Due domeniche in solitaria, a pedalare, per pedalare, per liberare il corpo dalle tossine della settimana lavorativa, per liberare la mente dalle nevrosi accumulate da questo sistema che ci stiamo imponendo.

Due giri, “Due Centelli in gergo ciclo amatoriale, cioè due pedalate da 100 chilometri, lungo due fiumi, che formano due valli così diverse eppure così belle.

Un giro lungo il Panaro, fiume che prende le sue acque da tre torrenti, due che scendono dal Cimone, lo Scoltenna dal versante nord, il Leo dal versante Sud e dal Dardagna, in realtà affluente del Leo, che nasce a sinistra del Corno alle Scale poco sotto le sue piste da sci, in quella Val di Gorgo che è già terra modenese e che forma a scendere sette cascate, sette tuffi, sette monumenti che l’acqua ha disegnato plasmando le dure rocce appenniniche.

E un giro lungo il Reno che nasce in Toscana, nascosto tra le conche e le selve del pistoiese, poco sotto il borgo di Prunetta e poi si butta nella valle stretta verso Porretta e poi fin giù a Casalecchio, attraversando poi la pianura e buttandosi nell’Adriatico tra Ravenna e il delta del Po’.

Cento chilometri in solitaria fruttando le valli e i fondovalle che questi fiumi nei secoli han creato. Valli diverse, con il fondovalle Panaro largo ma brullo, mentre la valle del Reno stretta e chiusa, ma verde e lussureggiante, con la caratteristica di essere, entrambe, ciclisticamente perfette per una pedalata, che sia svago o allenamento.

La prima Domenica passo attraverso Vignola, accolto dal suo maestoso Castello proprio sulle rive del Panaro, continuo poi verso Manaro e prendo quel fondovalle che fatto tutto mi porterebbe a Fanano e se continuassi fino a Sestola e a Pievepelago, fuggendo verso il Tirreno dal Passo delle Radici oppure da quello dell’Abetone. Mi bastano però meno  chilometri e mi godo pedalando agilmente il fiume che appare e scompare ad ogni strappetto, che non di rado diventa salita vera, dominato dalla vecchia torre di Festà a destra e dai Sassi di RoccaMalatina a sinistra, altri monumenti che la natura ci ha regalato. Pedalo agile su quei saliscendi che il vento in faccia mi fa apparire salite vere, qualcuno tutto sui pedali, ballando o per meglio dire dimenandomi dal cattivo abbraccio di quel vento dispettoso, e qualcuno tutto seduto in sella, controllando e rilassando ogni muscolo del corpo, facendo faticare solo gambe e cuore, imponendomi relax ed eleganza. Qualche chilometro dopo La Casona salgo verso Castagneto, questa è si salita vera, sale fin su quasi a Pavullo, una salita gentile ma che non concede molto riposo, con qualche punta anche leggermente più acida, che pizzica i muscoli e li indurisce. In cima, all’incrocio per Pavullo, da una parte la pianura Padana sotto un velo di nebbia, dall’altra il Cimone, maestoso e ricoperto della prima neve nel cielo blu intenso dell’Appennino.

Mi butto di nuovo verso il fondovalle, passo Verica e dribblo un cane un po’ troppo spericolato e in fondo la discesa mi dirigo di nuovo verso la Bassa fino a Ponte Samone, proprio lì dove avevo svoltato un’oretta prima verso Castagneto ora svolto nuovamente ma stavolta verso Samone e Zocca, attraverso il ponte, ammiro il limpido Panaro che corre verso il Po e cominciò, a salire con la fatica dei chilometri percorsi che comincia a farsi sentire e le gambe che più aumenta la quota più perdono giri.

Ma nonostante questo, arrivato sulla Statale, mi concedo ancora un po’ di fatica e riprendo la salita, lambisco Zocca, il paese di Vasco, e giro verso Monte Ombraro, buttandomi dal paese verso casa e un meritato riposo.

Una settimana di stop forzato e lavoro intenso e la domenica successiva un nuovo giro, sempre solo, stranamente solo, ma felice, perché a volte pedalare con solo le chiacchere della tua mente e il vento nelle orecchie è fondamentale, è riordinare i cassetti delle idee, dei progetti, è sistemare i problemi da una parte, fare spazio per risolverli o prendere la rincorsa per saltarli.

Le otto di mattino della Domenica con una leggera nebbiolina a far da velo al primo sole che illumina la Valsamoggia. Pochi gradi sopra lo zero, la neve ancora a lato strada a ricordo di un’improvvisa e veloce perturbazione del venerdì.

Doppi guanti che non servono a congelare le dita finché il sole non sale bene in cielo e prova a riscaldare l’umidità penetrante che attanaglia tutto il corpo.

Condizioni che non consigliano un’uscita in bici ma che invece mi esaltano.

Affrontare ogni tipo di clima, pedalare dentro di esso, conoscerlo, sfidarlo, affrontarlo e superarlo, vincere le sue difficoltà e continuare a pedalare. È sinonimo di vita, di quello che la vita ti riserva e ti mette davanti in tutta la sua cruda concretezza.

Pedalo per la Bazzanese, tranquillo ma spingendo, sento il calore del corpo che piano piano sblocca le articolazioni dopo la prima ora al ghiaccio. Arrivo a Casalecchio e salgo in Porrettana. Salgo in Porrettana e nello stesso momento mi immergo nel Reno. Il fiume rimane laggiù, distante, ogni tanto lo vedo, ma lo sento sempre.

La Porrettana è così bella con tutti i suoi strappetti, la mente corre a quando da ragazzino con la Ceretolese in estate facevamo le ripetute, tutti gli strappetti a tutta fino a Vergato e poi al ritorno, uguale.

Altri tempi, meno traffico e la bicicletta era ancora considerata. Nel nuovo secolo affrontare questa strada in settimana è più che rischioso da soli, figuriamoci in gruppo, ma la Domenica di buon Mattino appare quasi un altro tempo, un’altra epoca. Poche macchine, nessun camion, la sogno come una pista ciclabile ben conscio e attento che così non è.

Supero Sasso, salgo alla Lama e scendo a Marzabotto, seduto senza affanni arrivo a Misa e mi tuffo verso Pian di Venola pronto per la fatica di Sibano e la tortuosa discesa di Pioppe.

Sulla sinistra la chiesa e il cimitero di Salvaro svettano a protezione della valle, lassù riposano i miei nonni e lassù dentro al cimitero un bellissimo mosaico poco tenuto ricorda le atrocità compiute dai tedeschi su quei monti che prima del loro passaggio erano vivi ora ricordano, in un silenzio irreale, la morte più atroce.

Vergato è già sveglia e gli dò il buongiorno senza fermarmi salendo subito verso Cereglio.

Non voglio fermarmi, per una volta non voglio fare foto, voglio impormelo, vorrei, ma non resisto. Ai primi tornanti la valle del Reno velata della nebbia del fiume sembra un dipinto. Al secondo tornante, improvviso, un vento caldo asciuga il mio sudore gelato della pianura e mi costringe a spogliarmi. Mi sarei fermato lo stesso, quel dipinto è da immortalare, dai primi tornanti fino a dove la strada concede quella splendida vista appare sempre diverso e più mi alzo più il dipinto diventa prezioso.

Riprendo a salire, mi apro leggermente la giacca e comincio a spingere, senza esagerare. Due signori ben coperti salgono con delle mountain-bike quasi d’epoca. Pensare che ormai molti, alla loro età, rottamano la classica bici muscolare per passare ad una pedalata assistita me li rende simpatici, anzi nel mio immaginario del ciclista modello loro sono eroi.

Li supero e mi superano un paio di volte, ogni volta che mi fermo a sospendere nel tempo quel panorama. Vanno piano, ma anche io non scherzo. Pensare a quanto veloce la faccio a ruota dei miei amici fidati mi viene quasi voglia di scendere e salire a piedi.

Ma è proprio questo il valore che devo ritrovare. Il pedalare senza affanni, lentamente, avanzare senza tempo, battiti, pedalate, e watt. Pedalare e basta. Alzare lo sguardo oltre la strada e notare che superato Susano, e la sua osteria, Cereglio appare già sulla mia testa, come se quella, invece di essere una salita docile e mansueta, fosse lo Stelvio.

Arrivo in paese a Cereglio accolto da un originale albero di Natale fatto di presine e unite tutte insieme.

Nonostante il ghiaccio dei giorni passati la fontana gorgoglia e riempire la borraccia è un obbligo. Il freddo dei primi chilometri non mi ha impedito di finire quasi tutta l’acqua che avevo. La sosta è veloce e riparto sempre con il mio passo che mi sembra lento, ma che in realtà è più che allegro. Attraverso veloce il borgo di Amore e salgo a Passo Sella della Croce scendendo e sfrecciano per Rocca di Roffeno fino a Bocca dei Ravari e qui entrando in territorio modenese verso Zocca.

Le prime curve, dopo l’incrocio di Bocca dei Ravari sono le uniche che trovo con un filo di ghiaccio e ancora neve paciugosa a terra. I copertoncini da 28 montati da Paolo Malini tengono bene e nonostante comincino a sentire il passare dei chilometri, senza toccare i freni riesco a pennellare la strada sicuro fino alla Lama di Zocca, fino alla Fogna e dopo Zocca fino a Monte Ombraro che è diventata ormai la discesa di casa.

È L’ultima discesa prima del ritorno verso la bassa, non mi sarei dovuto fermare mai ma alla fine del paese, quando la pianura mi si apre, mi si dovrebbe aprire, davanti agli occhi mi fermo nuovamente.

Pensare che tra poco sarò di nuovo dentro quell’aerosol di nebbia smog e polvere mi rattristisce. Immortalo con un’altra foto quei strati di cielo che dall’azzurro intenso passano al grigio e poi al nero e mi volto indietro e riparto.

L’Appennino è ormai alle mie spalle, il Reno e il Panaro anche se non li vedo sono esattamente alla mia destra e alla mia sinistra, e li immagino come jet a scortarmi verso casa.

Aspettando un altro weekend di pedalate finisco questi giri in solitaria, uno sulle sponde del Panaro e uno sulle sponde del Reno, facendo pressoché gli stessi chilometri, quasi lo stesso dislivello e la stessa media di velocità.

Cento chilometri poco meno di millecinquecento metri di dislivello e quasi i ventisette di media.

Tra Reno e Panaro, tra Bologna e Modena due giri invernali, e chissà che tra la primavera e l’inverno non ne diventino uno solo.

 

 

 

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