Testo e foto di Enrico Pasini
Il caldo è arrivato fin quassù, a quasi mille metri di quota alle nove di mattina il sole brucia i castagni ancora spogli dai ricci e i campi, tra un bosco è l’altro, sono secchi come se un drago fosse passato con il suo getto di fuoco a distruggere tutto.
È arrivato il caldo ma non l’afa. Quell’afa che sta portando ad alte quote tanti cittadini in cerca di ossigeno e un poco di refrigerio. Quell’afa che stritola Bologna dalla periferia fin sotto i portici e dentro le chiese, che non lascia respirare tra l’umidità avvolgente e lo smog soffocante e sporca il cielo di un finto bianco che da quassù non può nascondere il suo triste grigiore.
Quassù il cielo è azzurro, spazzato per qualche giorno da leggero e caldissimo scirocco. È caldo, è un caldo inusuale che ha portato qualche zanzara, trasportate sotto i tappetini delle automobili sono riuscite a sopravvivere, rintronate dalla quota e isolate dai loro nidi.
Esco da casa e mi immergo nel bosco, il sollievo dell’ombra della selva mi rinfresca dopo i pochi metri passati sotto il sole.
Il bosco ribolle, questo caldo africano lo cuoce esaltando il profumo di ogni sua pianta. L’odore del bosco pervade le narici e apre i bronchi e i polmoni, pulendoli dallo sporco che quotidianamente respiro in citta. È una sensazione di pulizia e apertura immensa, odori e sapori si mischiano nel corpo che li fa suoi, sfruttandoli per curarsi dalla quotidianità cittadina. A volte la poca abitudine a questa pulizia fa venire uno starnuto, è uno sfogo, è liberazione, è anche quello starnuto libertà, una rivoluzione che il corpo reclama, pretende.
Scendo il bosco e prendo la strada in ciottoli che porta a Farnè. Percorsa per secoli da commercianti, soldati, briganti e pellegrini. Da chissà quanto tempo quelle pietre prese dal fiume sono calpestate da popoli che si spostavano da una parte all’altra dello stivale. Quassù la chiamano tutti con un nome diverso. La Strada romana, la strada di Napoleone, il percorso vita, chissà da dove partiva, chissà dove arrivava. Ora nasce all’improvviso al tornante di Cà delle Borelle, come un tuffo nel bosco plana verso Farnè, attraversa LagoBuro e arriva alle porte della piccola borgata. Si dice che da quella strada passò il Dardagna quando forarono dal Poggio, Poggiolforato, per mandare l’acqua del Dardagna del Silla. Si dice che ce la fecero, ma di certezze ce ne son ben poche.
Farnè è già sveglia, lungo la strada che scende verso il Molino del Tosco, il Laghetto, o la Chiesina e giù a Cà Julio ai piedi della maestosa e verde Riva. La colazione è già terminata e odori di soffritto entrano direttamente nello stomaco e nella fame che in ferie non conosce fine.
La Chiesina è addobbata a festa, Don Giacomo è pronto per la Messa e fuori è già pronto l’aperitivo. Mi siedo fuori la cagnolina, è impaziente e di stare ferma non ne vuole sapere, eppure si deve rassegnare.
Le omelie di Don Giacomo sono sempre concrete. La si può pensare come si vuole, avere idee diverse, credere o non credere in qualcosa più grande di noi, ma Don Giacomo ha sempre la forza di farti ragionare e portarti nella dimensione reale di questo mondo. Nel finire del suo pensare, nel finire il suo parlare, in piedi ad occhi chiusi, o se non son chiusi son aperti ben poco, Don Giacomo trova uno dei valori preziosi, di questa montagna. Un vero tesoro è quel senso di comunità, di unità e di rispetto verso il prossimo che spesso lontano da qui non riusciamo a vivere e anzi che spesso disprezziamo. Quel salutarsi anche da una parte della strada, il venirsi incontro, lo stringersi le mani, l’abbracciarsi, movimenti così naturali quassù ma che se li facessimo in città, da un portico all’altro, ci si prenderebbe per pazzi.
Alla Consacrazione il silenzio è sacrale, corpo e sangue di Cristo portati verso il cielo dalle mani del Don, una leggera aria che muove l’erba del pratone e la voce del Dardagna che, gentile come un’Ave Maria, risuona tra la Riva e il Belvedere. È un momento sacro, è una preghiera silenziosa e permanente che dalla terra sale verso l’infinito.
La Messa finisce e le campane suonano tirate con forza e fatica dai bimbi a cui viene dato il permesso di suonarle. Ricordi che salgono alla mente quando anche io suonavo quelle stesse campane. L’uscita della Messa è un fiume di sorrisi e chiacchere, davanti ad una fetta di salame abbracciata da crescenta sfornata il mattino presto.
La cagnolina viene finalmente liberata, dopo una briciola di crescenta corre sfogando quell’ora ferma nel pratone dinanzi alla Chiesina.
Risalgo legandola al guinzaglio verso Farnè, l’acqua fresca della fontana al centro della borgata ci prepara alla lenta risalita lungo il bosco, ripercorrendo quella strada che chissà se Napoleone ha mai veramente percorso. Libero la cagnolina che corre qualche metro avanti e si gira per controllare il mio cammino e per riposarsi un po’.
Qualche goccia di sudore comincia a scendere dalla fronte passando dietro i Raybam ed entrandomi negli occhi.
Salgo accaldato, assaporando ancora gli odori del bosco, tra qualche giorno le ferie finiranno e la città proverà a riprendere possesso della mia quotidianità.
Accompagnato nel traffico della città e dalla nevrosi del produrre, il sibilo del vento e la voce del Dardagna, di una Domenica di Agosto a Chiesina Farnè, saranno la mia preghiera per un vivere di semplice bellezza.