Fabio è lì, poche decine di metri davanti a me, è così da quando è iniziata la salita a Pievepelago, si è messo davanti, Gianluca e Guido gli sono andati dietro, io invece mi sono messo il Cruise control deciso a salire del mio passo.
Due volte il passo delle Radici dai due versanti più lunghi, Pievepelago all’andata, Pieve Fosciana al ritorno scendendo da San Pellegrino in Alpe. Un giro che avevo in mente da tanto e che finalmente, il giorno dopo ferragosto del 2024, riesco a fare.
Sono sceso da La Cà a Fanano dove ho raccattato i tre cittadini in preparazione alla Granfondo più dura d’Europa, l’Otzaler Marathon, e insieme abbiamo cominciato a pedalare verso Sestola, Montecreto e Riolunato.
Fabio è lì, solo, Gianluca e Guido li ho sentiti parlare e poi sparire dalla nostra vista tra le curve dei primi chilometri che salgono verso il passo.
Pedalo leggero, agile, non pensando alla fatica, e non pensando a quanto vanno forte gli altri. Mi guardo intorno, cerco nuovi riferimenti, distrazioni che non mi facciano capire quanta strada devo ancora salire.
Nel giardino di una casa che guarda la strada marito e moglie, forse, oppure chissà, sono seduti ad un tavolo. Sono le 9:30 di mattino, l’orario fa pensare ad una bella colazione, ma lei invece ha una bella bottiglia da 66cl di Ichnusa aperta davanti a sé.
Quella signora resterà per sempre nel mio cuore.
Fabio lo tengo controllato, non vorrei ma lo faccio. È istinto ciclistico.
Ogni chilometro conto i secondi che ci tengono separati. Una decina, costanti.
Lo conosco bene il versante di Pievepelago, quindici chilometri mai costanti con tratti a doppia cifra e altri quasi pari. Il tratto che attraversa Sant’Anna Pelago il più complesso con continui cambi di pendenza che non lasciano trovare il ritmo e chiedono continui sforzi, non solo muscolari, ma anche mentali.
Proprio dopo quel tratto vedo Fabio girarsi, forse mi vuole aspettare, penso, ma poi prosegue del suo passo. Rimane lì, sempre a dieci secondi, fino a poco prima dell’incrocio per Frassinoro, meno tre chilometri alla cima. Si volta e rallenta. Questa volta mi aspetta. Lo raggiungo e parliamo. Arranca e comincio a farlo anche io, ma proseguo del mio passo, sono quasi quindici chilometri che lo faccio e voglio finire così.
Il primo Radici se ne va bene. Nuvolo tutta la salita, temperatura di 20 gradi, perfetta, è forse la prima salita che faccio con la maglietta chiusa da quasi due mesi. Saliamo a San Pellegrino e prendiamo un caffè e una crostata mele e noci che ci basterà per i primi chilometri di salita in Garfagnana. Il panorama è fantastico, San Pellegrino in Alpe è un vero terrazzo sulla Toscana tirrenica con il muro delle Apuane a fare da muro alla vista del mare, regalando giochi di luci tra la roccia e il bianco del marmo.
Mangiamo in Emilia ma paghiamo in Toscana, in questo paese, il più alto dell’Appennino Tosco Emiliano, diviso a metà e il cui confine è proprio all’interno del bar.
Scendiamo da San Pellegrino verso Pieve Fosciana, la discesa è dura quanto la salita che ben conosciamo e già abbiamo affrontato in passato diverse volte. Una salita, un’impresa, lo è anche la discesa, i primi chilometri in costante vertigine.
Da metà la dobbiamo fare dietro ad automobilisti che forse potrebbero salire in montagna anche in autobus. Se facessimo come tanti automobilisti fanno con noi ciclisti dovremmo cominciare ad urlare di farci passare, di levarsi dai maroni, di andare a fan…, ma capiamo le loro difficoltà e portiamo pazienza.
Finita l’agonia della discesa tornantino a destra, pochi metri e si ricomincia a salire.
Incontriamo subito il capoluogo di questo versante, Castiglione Garfagnana, con il suo castello a dominare la collina e guardare Castelnuovo dall’alto.
Sono rimasto uno dei pochi a non tracciare il giro su qualche piattaforma, a non guardare le salite calcolando i dati che leggo al momento con quelli che conosco. È una salita lunga, 25 km, siamo a quattrocento metri di altitudine e dobbiamo tornare ai più dei 1500 del passo delle Radici. Lunga ma pedalabile penso, e Fabio mi rincuora subito, la pendenza media è del 4%, praticamente da rapportone.
Questo era un dato che non volevo sapere, perché fino ai meno dieci dalla cima, quel 4% io non l’ho mai visto. Sempre sopra il 6 spesso anche all’8 percento.
Guido e Gianluca questa volta non scattano, ma allungano piano piano fino a sparire dalla mia vista. Io sono in mezzo ad un elastico, Fabio infatti piano piano si stacca.
Ad un certo punto incontriamo un altro ciclista, è l’unico che vedremo salire, mi volto e vedo ancora Fabio, indeciso se aspettarlo o no rallento un attimo, supero e saluto il ragazzo, e mi volto nuovamente indietro. Fabio è ancora più staccato. Decido di andare del mio passo, poco più forte e proseguo la scalata.
Dopo quindici chilometri di salita e senza aver mai visto questo misterioso 4%, rimango senza acqua. Non lo vedrò mai questo 4% l’ho capito solo ora, e comincio a scavare nella mente sull’unica volta che la feci in discesa.
Mancano ancora 10 e comincio a preoccuparmi, ho due borracce vuote, il sole scotta e anche se non si boccheggia il caldo scioglie le energie e secca la gola.
Finalmente la strada spiana, veri e propri tratti pari, pedalo bene e allegro, passo una serie di curve e sento lo scrosciare dell’acqua. Mi volto e vedo passare una sorgente. Non mi fermo, confido di trovarne un’altra più avanti.
Per fortuna non mi sbaglio. A Col d’Arciana, una casa e un ristorante, con cucina a sinistra della strada, e tavoli a destra, una fonte sgorga acqua limpida. Mi fermo e mi immergo, è freschissima, sembra quasi alpina, ed effettivamente anche questa salita assomiglia molto ad una lunga salita alpina anche se il caldo e gli odori del bosco riportano tutto in appennino.
Riparto, lascio attraversare il cameriere con un vassoio carico di polenta e ragù di qualcosa. Cerco di non pensare di cosa potesse essere quel ragù, macinato misto, capriolo, cinghiale, cerco di non pensarci ma l’orario del pranzo non aiuta, ad ogni casa che passo si sente forchettate e brindare, alzo la testa e vedo un tavolone pieno di commensali e ancora più pieno di bottiglie di vino, abbasso lo sguardo e in una villetta cento metri più sotto una famiglia pranza con ancor la griglia fumante e la carbonella ardente.
Non è facile salire con queste tentazioni e ai Casoni di Profecchia devo rallentare, un po’ per gli odori di funghi e carne che escono dalle cucina, un po’ per non investire nessuno dei clienti in attesa di un tavolo.
Mancano ancora sette chilometri e poco dopo la memoria si sveglia e mi riporta alla prima volta che feci questo versante in discesa. Una discesa che non scendeva. Infatti poco dopo passati i Casoni la salita scende per un chilometro e risale pochissimo fino ai meno due. Qui la strada arriva decisa al passo rendendo grande soddisfazione alla lunga e calda scalata.
Fabio arriva dopo cinque minuti, Guido e Gianluca erano già arrivati da quasi dieci, loro i tavoli imbanditi, il forchettate nelle case e le fontane, non le hanno proprio considerate.
Scendiamo a Pievepelago e niente può toglierci un bel panino e una Coca cola, premio ma anche ricarica per tornare verso Sestola attraversando i suoi borghi più popolati, Riolunato e Montecreto.
È agosto la montagna è piena lo abbiamo visto dal traffico, lo abbiamo visto dalla gente ai ristoranti, lo vediamo dal costante incontro con altri ciclisti, siano in Gravel, e-bike o Mountain bike.
I ragazzi sono divisi sul voler salire al Cimone oppure accompagnarmi verso La Cà.
Fabio indecisioni non ne ha, scende a Fanano e torna alla macchina, anche Gianluca non ha dubbi vuole accompagnarmi almeno fino alla Masera. Guido scende con noi, a Fanano comincia a salire ma appena la strada bagnata lo inzuppa un pochino decide di tornare indietro.
Un temporale ci ha preceduto allagando la strada, ma non piove più e non si capisce cosa farà, io e Gianluca speriamo solo non torni fuori il sole e renda la salita una sauna insopportabile.
Il cielo ci grazia, le nuvole coprono il sole ma non fanno scendere una goccia di pioggia, agevolando la nostra salita verso la Masera con una temperatura perfetta.
Gianluca alla Masera mi saluta e torna indietro, io proseguo verso la Cà scendendo a Farnè. Il Bryton nel frattempo era rimasto fermo all’altitudine di Fanano, non incrementando quasi niente il dislivello verso la Masera. Calcolo a spanne a quanto potrei essere di dislivello, penso un 3600 metri quando all’improvviso, nel falsopiano che va verso Vidiciatico, il Bryton si risveglia colmando tutto in poche centinaia di metri.
Arrivo a Farnè e mi dice che sono a 3700 metri di dislivello.
Arrivare a casa non basterà, comincio a salire piano e agile verso Ca’ Corrieri, dopo l’incrocio per Lagoburo in mezzo al bosco sento qualcosa spezzarsi, mi volto e vedo un albero crollare a terra. Meglio nel bosco che sulla mia testa. Salgo, arrivo al mio borgo, mancano ancora poco meno di 100 metri per i quattromila. Salgo a LaCà ma non basta, Ca’ Gabrielli lo step successivo, più su non posso andare. Entro nel borgo, passo l’agriturismo, il piccolo oratorio e comincio a scendere. 3997 metri. Mi mancano 3 metri, lo strappetto delle querce secolari di Ca’ Corrieri è quello che mi porta a superare i 4000 metri di dislivello. E sono a casa, dopo 170 chilometri e otto ore di splendidi panorami tra Emilia e Toscana.
Dentro la favola dell’Appennino.