Tiberio Rabboni – foto Gazzetta di Parma
Di seguito pubblichiamo il seguito dell’ intervista a Tiberio Rabboni, realizzata in occasione della recente pubblicazione del libro, La via Emilia, una strada tra la terra e la tavola, cinquanta brevi racconti agroalimentari: storia, curiosità, ricordi.
Qui è reperibile la prima parte dell’ intervista.
Una curiosità, da dove hai ricavato le informazioni storiche con cui impreziosisci la descrizione di ogni prodotto?
Qualcosa ricordavo, altre informazioni le ho attinte dalla Fondazione Qualevita, diretta da Mauro Rosati e poi le riviste di settore, irrinunciabile fonte di conoscenza per chiunque voglia occuparsi di agricoltura. Io volevo raccontare un po’ di storia, accennare alle proprietà nutrizionali e salutistiche e inserire qualche aneddoto per rendere più fruibile il testo.
.Tra le storie che racconti c’è quella, triste, dello zucchero. Fino a una quindicina di anni fa in Emilia Romagna c’erano sette zuccherifici, oggi uno solo. Come mai?
Nei primi anni duemila l’Europa voleva riorganizzare il settore, puntando sulle aree a maggiore produttività e vocazione, cercando di allineare il costo medio europeo di produzione dello zucchero al prezzo internazionale, sensibilmente più basso. L’intento era diminuire il costo per tonnellata prodotta per poter competere sul mercato senza dover integrare il prezzo agli esportatori europei, privilegiando le aree maggiormente vocate del nord Europa. Per questo motivo sono stati garantiti significativi indennizzi economici a ogni impianto dismesso nel sud Europa, dove produrre zucchero aveva costi maggiori. Gli industriali del settore hanno colto al volo questa opportunità e, nel giro di pochi anni, hanno chiuso tutti gli impianti, tra cui quelli presenti in Emilia-Romagna, con l’unica eccezione dello zuccherificio di Minerbio, impianto gemello di quello di Pontelongo in provincia di Padova. Entrambi gli zuccherifici sono di proprietà della cooperativa di agricoltori Co.Pro.B.. I soci hanno resistito alle sirene della dismissione, spinti dall’importanza della barbabietola all’interno delle rotazioni culturali e ulteriormente stimolati dai residui sostegni economici alla produzione. La cooperativa ha cercato in ogni modo di aumentare la redditività e il valore delle proprie produzioni, da un lato utilizzando i sottoprodotti colturali per produrre energia e dall’altro valorizzando l’Italianità dello zucchero prodotto, sviluppando una linea di zucchero provvisto di certificazione biologica e firmando contratti con l’industria dolciaria per le produzioni interamente Made in Italy. Il paradosso è che, qualche anno dopo la chiusura degli impianti produttivi, il prezzo sul mercato mondiale è rimbalzato verso l’alto a causa di avversità climatiche molto significative avvenute in centro-America e l’Italia non ha potuto approfittarne. L’intervento sul settore aveva motivi concreti ma il Ministro dell’epoca, Alemanno, ha contribuito ad accelerare questa dismissione. Il suo ministero ha incentivato le chiusure rassicurando dipendenti, associazioni agricole, Enti Locali e regioni che nessun posto di lavoro sarebbe andato perso perché negli impianti chiusi sarebbero sorte, finanziate con i denari che l’Europa destinava agli industriali e sotto il controllo del Governo, nuove attività, non meglio precisate. Fatto sta che in quasi tutti gli zuccherifici dismessii non è sorto nulla e nei pochissimi casi dove i proprietari hanno prospettato piccoli impianti per energie rinnovabili ci sono voluti quasi dieci anni per vedere qualcosa di concreto. A tutt’oggi gli impianti effettivamente realizzati in Emilia-Romagna sono pochissimi, appena un paio: a Russi e a Finale Emilia. E, come se non bastasse, Italia continua ad essere importatrice netta di zucchero.
Curiosità ippica: per cosa viene usato adesso il cavallo da tiro italiano?
L’ allevamento di questa razza è appannaggio esclusivo dei cultori, degli appassionati di questi enormi cavalli. L’ indotto è legato alle esibizioni, alle manifestazioni, alle fiere e ai finimenti. Una parte significativa dei capi allevati è tutt’ora destinata al consumo alimentare.
All’ interno del capitolo dedicato agli ogm, nell’illustrare la contrarietà della regione Emilia Romagna, parli più di economia che di sicurezza alimentare. D’ altra parte il presente sta mostrando gli effetti drammatici del cambiamento climatico e la popolazione mondiale ha già raggiunto la soglia di otto miliardi di persone. Il rischio che non ci sia cibo per tutti è più che reale. La ricerca genetica in agricoltura potrebbe essere di grande aiuto a scongiurare questo pericolo. Non credi che sarebbe utile una maggiore libertà di ricerca scientifica, ovviamente riservandosi la possibilità di mettere in campo tutte le iniziative utili a far si che la agricoltura nazionale non faccia tutta la fine dello zucchero?
Io non sono uno scienziato e quindi faccio fatica a entrare nel merito. Per me ci sono tre punti fermi, da utilizzare come rifermenti per navigare nel mare aperto del presente. In primo luogo se fossero disponibili organismi resistenti alle avversità in grado di dare luogo a produzioni con le stesse caratteristiche in ogni parte del mondo, il mercato sarebbe deciso dalle economie di scala, quindi dalle dimensioni aziendali, con evidenti vantaggi per le aziende d’oltreoceano e grave danno per il settore agricolo nazionale. L’unica possibilità che ha l’ agricoltura italiana è di poter competere sulla qualità, sull’origine e sulla biodiversità. D’ altro canto sono consapevole che siamo oggi otto miliardi di persone, tra vent’anni saremo nove, ma la terra coltivabile e l’acqua per coltivarla resteranno quelle di oggi e la distribuzione del cibo nel mondo sarà ancora più ineguale. Occorre aumentare la produzione agricola e, personalmente, non ho dubbi che la ricerca scientifica possa rappresentare un pezzo della soluzione del problema. A ingarbugliare ulteriormente la matassa c’è poi l’ attuale legislazione europea che vieta completamente la ricerca sulle modifiche genetiche. La terza questione riguarda la sicurezza sanitaria ed alimentare dei risultati della ricerca genetica. Da profano, in ossequio al più elementare buonsenso, credo sia utile lavorare per ottenere selezioni resistenti alle avversità climatiche e ai parassiti e, a parità di qualità e sicurezza, maggiormente produttive procedendo per famiglie omogenee, evitando di assemblare patrimoni genetici che in natura non si incontrerebbero mai, almeno su tempi comparabili allo sviluppo umano Credo che chi ha la responsabilità di decidere si debba muovere fra questi due poli: da un lato la tutela della biodiversità del patrimonio agricolo, dall’ altro la consapevolezza che il mondo ha necessità di produrre più cibo con tecniche sempre più sostenibili e rispettose delle risorse naturali.
Nel libro sostieni che Il cotechino, a parità di peso, abbia meno calorie della pasta scondita. Ne sei sicuro?
Si, assolutamente: in un etto sono 250 contro 370 della pasta. Lo stesso vale per la mortadella: 288 calorie. L’apporto calorico dei grassi della carne di suino è molto simile a quello del pollo o del manzo. La cattiva reputazione della carne di suino è per lo più indotta dai grassi saturi che caratterizzano i salami stagionati e le salsicce, dalle grandi quantità di sale e spezie utilizzate per la conservazione e la stagionatura di alcuni tipi di carne, sicuramente e dalla grande abbondanza con cui viene consumata. Difficilmente ho visto qualcuno limitarsi a quantitativi moderati.
Nel libro parli, giustamente, dell’attività di bonifica, decisiva per lo sviluppo dell’agricoltura di pianura, dove la stessa rete di canali che, quando piove, asciuga i terreni, nella stagione secca li irriga. Attualmente ricopri il ruolo di Presidente del Gal dell’Appennino bolognese e, in questa veste, sei spesso a contatto con il mondo agricolo della montagna. Nessuno ti segnala che la mancanza di acqua potrebbe essere un fattore limitante per lo sviluppo agricolo, anche a quote altimetriche più elevate?
Tra le pieghe il tema emerge senza però assumere il clamore che lo accompagna in pianura. La differenza sta nell’ordinamento colturale: in pianura l’ortofrutticolo, il cerealitico, il vitivinicolo, gli allevamenti, le colture da foraggio sono fondate sulla disponibilità idrica, resa possibile dal Po, dal canale emiliano-romagnolo che ne porta le acque da Bondeno fino a Rimini e, in parte, dal canale del Reno. Poi ci sono alcuni invasi, in particolare Ridracoli, le dighe che servono il piacentino dal versante ligure. Questa disponibilità idrica, unitamente alla maggiore mitezza del clima, ha permesso lo sviluppo dell’agricoltura intensiva. Il recente cambiamento climatico, le prolungate siccità e le sempre più elevate temperature estive stanno però mettendo in discussione tutto questo. Si impongono allora tre innovazioni profonde: sistemi irrigui di massima precisione, selezione di varietà meno idroesigenti, nuovi invasi per lo stoccaggio dell’acqua meteorica e di superficie. E’ un percorso avviato ma le cose da fare sono ancora tante. Con i fondi del PNRR nei prossimi tre anni si realizzeranno in Emilia-Romagna diversi progetti dei Consorzi di Bonifica che produrranno un aumento della disponibilità idrica di 75-80 milioni di mc.Si tratta di innovazioni necessarie anche per l’Appennino dove il supporto irriguo è comunque indispensabile per lo sviluppo delle attività di allevamento, per le colture vegetali o per taluni progetti futuribili come la diffusione degli impianti di mela rosa romana.
L’ortica ha veramente un indotto economico, al di là della sagra a lei dedicata?
L’ ortica ha avuto ed ha tutt’ora molteplici utilizzi in cucina, in erboristeria, in medicina, nella cosmesi e nell’industria tessile. Questo impiego è un retaggio della tradizione rurale, la dimostrazione di come in passato ci fosse una grande cultura delle erbe selvatiche, apprezzate per le loro proprietà. Ormai, soprattutto in pianura, dov’è tutto antropizzato, trovare erbe spontanee è molto difficile, quindi anche questo versante potrebbe essere riscoperto e valorizzato. Aspetti economici a parte, Il tema centrale resta quello della biodiversità e dell’ impoverimento del patrimonio genetico disponibile
Da qualche anno sei il presidente del Gal dell’ Appennino bolognese e, in questa veste, segui con attenzione le vicissitudini degli agricoltori. Come ti sembrano le condizioni dell’agricoltura di montagna? Quali sono i principali punti di forza e di debolezza del settore?
Personalmente riscontro una situazione a macchia di leopardo, in cui coesistono storie imprenditoriali nuove e interessanti ed esperienze in continuità con il passato, condotte prevalentemente da pensionati, hobbisti e persone che esercitano l’attività agricola come seconda attività e che, giocoforza, non possono rappresentare un investimento sul futuro. Il punto di forza dell’agricoltura appenninica è rappresentato dalla naturalità e dalla sua biodiversità. Il 60% delle superfici dell’Appennino sono boscate, le produzioni sono estensive e simil biologiche, le superfici coltivate con tecniche biologiche certificate rappresentano una percentuale molto alta, circa il 33% della superficie agricola totale, gran parte degli allevamenti sono all’aperto o semi-bradi, si coltivano grani antichi, frutti altrove dimenticati, patate di qualità, piccoli frutti, castagne e marroni e erbe officinali. Sono tutte produzioni che possono incontrare un rinnovato interesse del consumatore alla ricerca di qualità, salubrità e tipicità. Occorre, ovviamente, agire sia sul versante della valorizzazione e trasformazione aziendale che su quello dell’aggregazione commerciale, cercando così di aggirare il limite rappresentato dalla piccolissima dimensione media delle aziende agricole di montagna. Il settore è attraversato da un certo fermento. Lo stesso strumento del distretto biologico, su cui il Gal sta lavorando, potrebbe servire a fare rete tra gli operatori locali, così da superare i limiti connessi alla piccolissima dimensione singola. Ci sono giovani imprenditori che rappresentano una discontinuità oggettiva con il passato, che provengono da altri territori o da ambiti professionali diversi e che scelgono l’Appennino per la qualità del viveree per le sue opportunità. Si tratta di trasformare ciò che storicamente è considerato fattore limitante, ovvero il clima, la conformazione del terreno, le basse rese ad ettaro, le difficoltà di meccanizzazione, in un punto di forza e di distintività, puntando su prodotti che altrove non ci sono. Un esempio è la mela rosa romana, un frutto appenninico dimenticato di altissima qualità che ha tutte le potenzialità per alimentare una moderna filiera melicola di montagna. Allo scopo è in corso di attuazione un progetto finanziato dalla regione, che coinvolge il Gal come divulgatore, finalizzato alla sperimentazione delle forme organizzative e imprenditoriali in grado di animare una filiera di operatorii che produca e commercializzi la mela rosa romana in biologico. La facoltà di Agraria ha selezionato il genotipo originale da propagare, un’azienda sperimentale ha messo a punto tecniche di coltivazione biologica, si sta creando un marchio collettivo privato, collegato ad un disciplinare e si è individuato un rapporto con canali commerciali specializzati. Una filiera organizzata, anche di dimensioni limitate,è fondamentale per il successo del processo. Le sagre possono essere utili alla promozione ma da sole non sono sufficienti. In questo contesto i bandi del GAL, di scala minore rispetto a quelli regionali, limitati alla fascia appenninica, rappresentano un’opportunità di cofinanziamento di tante voci di spesa, dalle piante fino alle macchine necessarie alla coltivazione. È bene ribadire che si tratta di un contributo che arriva solo a valle dell’investimento, i soldi vanno anticipati, ma questa è una costante dei finanziamenti europei per tutti i paesi dell’Unione. I contributi a fondo perduto vengono erogati solo se i progetti candidati dimostrano, una volta realizzati, di avere rispettato pienamente contenuti, procedure, leggi e regolamenti. In altri termini, i contributi pubblici possono aiutare le imprese se le imprese fanno bene il loro mestiere.