Tiberio Rabboni
Tiberio Rabbonì per molti anni ha ricoperto incarichi istituzionali. Negli anni Ottanta, in provincia, è assessore alla scuola e alla formazione professionale, per poi assumere, a metà del decennio successivo, le deleghe alla pianificazione territoriale, all’edilizia residenziale pubblica, ai trasporti e alla viabilità. Nello stesso periodo ricopre il ruolo di vicepresidente nella giunta guidata da Vittorio Prodi. Poi il passaggio in Regione dove, dal 2005 al 2014, assume la delega all’agricoltura. Attualmente è presidente del Gal Appennino bolognese e dell’organizzazione interprofessionale del pomodoro da industria. Nei confronti del mondo agricolo Tiberio Rabbonì intrattiene una frequentazione di lungo corso che lo rende un interlocutore esperto e appassionato.
L’amore verso un mondo che è iscritto da sempre nella sua storia personale ha condotto Tiberio Rabboni a scrivere e pubblicare, qualche mese fa, La via Emilia, una strada tra la terra e la tavola,cinquanta brevi racconti agroalimentari: storia, curiosità, ricordi. Il volume è un agile percorso divulgativo tra Rimini e Piacenza, lungo il quale il lettore incontra cinquanta storie agroalimentari. A fare da contraltare alle note eccellenze troviamo alcune storie minime, sopravvissute al passato quasi per caso, molto spesso grazie alla cocciutaggine di allevatori e agricoltori, insostituibili custodi della biodiversità agricola. Una lettura leggera e istruttiva, utile ad approfondire il rapporto con l’identità regionale, con la consapevolezza che il cibo che mangiamo e che scegliamo di portare sulla tavola racconta molte cose di noi e di ciò che siamo.
Di seguito a prima parte dell’ intervista realizzata da Renonews. Nei prossimi giorni sarà pubblicata la seconda parte della conversazione.
Negli ultimi anni hai pubblicato tre libri, non pochi per una persona prestata alla scrittura. Quali sono i motivi che ti hanno spinto?
I motivi sono diversi. Il primo, Cinquanta passi in avanti, quando la politica e la società camminano insieme. Diario di 50 realizzazioni di un assessore emiliano-romagnolo (2015, ed. Pendragon), in cui racconto la mia esperienza di amministratore pubblico, è stato dettato dal desiderio di mostrare che, di notte, non tutti i gatti sono grigi. Erano gli anni della rottamazione indiscriminata, mi sono sentito messo in discussione. Nella mia vita ho sempre cercato di fare ciò che mi veniva chiesto, nell’intento di ottenere dei risultati utili all’istituzione che in quel momento rappresentavo. Ho raccontato cinquanta realizzazioni compiute, tra Provincia e Regione, per dimostrare che si può fare politica, in modo onesto e proficuo, senza essere in possesso di doti eccezionali. Io sono arrivato alla responsabilità pubblica senza avere alle spalle percorsi professionali o scolastici particolarmente qualificanti e, malgrado questo, in tutti questi anni, qualcosa di buono ho combinato.
I due libri successivi sono dettati più da ragioni affettive e passionali. Bicivagando sugli Appennini: ventidue brevi itinerari cicloturistici per le valli e i crinali tra Emilia e Toscana è un tributo personaleall’Appennino, che è in grado di regalare scorci mozzafiato a chiunque lo percorra in bicicletta. Nell’ultimo libro, La via Emilia, una strada fra la terra e la tavola, raccolgo gli scritti usciti qualche anno fa, su Il Tiro, un magazine on line curato da alcuni amici bolognesi, in ognuno dei quali racconto brevemente una storia agro-alimentare dell’Emilia-Romagna.
Carlo Gaggioli (a sn) e Tiberio Rabboni
Nel libro è percepibile, da parte tua, un certo trasporto verso il mondo agricolo. Da cosa deriva questa passione? Come sei arrivato ad occuparti di agricoltura nella tua carriera?
Per molti anni, in Provincia, sono stato titolare delle deleghe alla mobilità e all’urbanistica e, in Regione, avrei gradito continuare ad occuparmene, invece mi è stata proposta l’agricoltura che ho comunque accolto di buon grado per via delle radici agricole della mia famiglia e della consapevolezza che il futuro dipende in gran parte dalle scelte e dall’evoluzione del settore primario. Le origini agricole sono profonde e radicate, entrambi i miei genitori discendevano da famiglie da secoli consociate alle Partecipanze Agrarie di Cento e San Giovanni in Persiceto, antiche forme di proprietà comuni indivisibili. La leggenda le fa risalire a Matilde di Canossa. In realtà nascono 800-900 anni fa come scambio tra l’impegno permanente alla bonifica dei terreni paludosi e la gestione agricola degli stessi appezzamenti, concessa ad alcune famiglie. Negli anni giovanili sono stato responsabile provinciale della commissione agricoltura del PCI. Certo per fare l’Assessore all’agricoltura, nella fase iniziale, ho dovuto studiare molto per approfondire la conoscenza del settore, ma questo l’ho sempre fatto, diciamo che lo studio rappresenta l’ABC dell’amministratore pubblico. Del resto, se tu partecipi, con un ruolo di responsabilità, a una riunione di addetti ai lavori senza conoscere gli argomenti oggetto di discussione è difficile risultare credibili. Nel caso dell’agricoltura, i problemi hanno spesso a che fare con il clima, la natura, le malattie delle piante e i mercati, tutte questioni che toccano la carne viva delle persone che di agricoltura vivono.
Quali sono i criteri con cui hai scelto le storie agro-alimentari che racconti?
Ho scelto i prodotti riconosciuti come eccellenze, con alle spalle storie produttive molto longeve e legati al territorio di origine, la cui unicità è garantita dai marchi DOP e IGP, consapevole che l’Emilia-Romagna è la campionessa italiana in questo settore, avendo più di quaranta prodotti protetti da marchi europei. Eccellenze a parte, ho cercato di raccontare alcune realtà agricole emarginate o abbandonate a seguito della cosiddetta rivoluzione verde. Lo sviluppo agricolo ha prodotto un grande balzo in avanti dal punto di vista produttivo grazie alla meccanizzazione, all’ impiego della chimica in agricoltura e alla sostituzione delle varietà e razze tradizionali con altre molto più produttive. Con la modernizzazione dell’agricoltura è venuto meno l’interesse economico verso molte varietà vegetali e razze preesistenti. Quelle che racconto io, una parte molto limitata del patrimonio agricolo pre-industriale, sono sopravvissute al nuovo corso agricolo, magari in pochissime unità, poi riscoperte da alcuni volenterosi. Mi riferisco, ad esempio, ai suini di Mora Romagnola, alle vacche Rossa Reggiana e Bianca Modenese, ai grani e frutti antichi. C’è poi una terza famiglia su cui mi soffermo che riguarda le esperienze finalizzate a migliorare la sostenibilità ambientale delle produzioni, la riduzione della chimica, la riduzione degli input tecnologici e del fabbisogno irriguo, a evitare l’impoverimento della sostanza organica nei terreni e alla mitigazione di tutti gli elementi che rappresentano la faccia buia dell’agricoltura industriale.
Lo sviluppo agricolo ha generato grandi incrementi produttivi ma, per contro, ha implicato anche un significativo consumo e depauperamento di risorse naturali Ad essere a rischio è la continuità stessa della produzione agricola nei prossimi decenni. Esistono delle tecniche che abbinano una buona resa produttiva al rispetto delle risorse naturali e mi è sembrato doveroso parlarne.
A proposito di razze animali e specie vegetali recuperate dal passato e della loro riscoperta, questi allevamenti riescono a resistere sul mercato oppure sono decisivi gli aiuti pubblici?
Le nicchie in agricoltura esistono soprattutto quando c’è una domanda che le supporta. Il consumatore evoluto non è un soggetto passivo ma può modellare l’offerta in base alle sue aspettative decidendo con cosa imbandire la propria tavola. Le vecchie razze e varietà hanno futuro se il consumatore le acquista. Poi ci sono gli aiuti pubblici. Da più di una decina d’anni nei piani di sviluppo rurali ci sono aiuti per gli agricoltori che allevano o coltivano biodiversità a rischio di estinzione. Oggi molte di queste produzioni pre-rivoluzione verde hanno un loro preciso mercato. Le tendenze sono incoraggianti. Il segmento bio è cresciuto negli ultimi 10-15 anni con incrementi annuali a due cifre. C’è una domanda crescente di cibo della salute dal momento che l’agricoltura iper intensiva ha visto crescere nei consumatori nuove intolleranze alimentari come quelle al lattosio o al glutine. I grani antichi, un tempo abbandonati perché poco produttivi e poco adatti alla meccanizzazione, sono oggi particolarmente richiesti perché si è scoperto che contengono poco glutine e buone proteine. Lo stesso vale per le bovine alimentate con foraggio per quanto riguarda il lattosio. In genere queste nicchie del passato sono anche portatrici di altissima qualità organolettica come nel caso della Vacca Bianca Modenese o della Vacca Rossa Reggiana, anch’esse soppiantate negli anni cinquanta a causa del poco latte medio prodotto, oggi rappresentano l’apice qualitativo, molto ricercato, del Parmigiano-Reggiano. Insomma, i consumatori, il mercato o quote di esso, restituiscono a queste realtà, marginalizzate per decenni, una remunerazione soddisfacente.
Mentre scrivevi ti sei immaginato un lettore ideale a cui ti stavi rivolgendo? A chi consiglieresti il tuo libro?
Mentre scrivevo ero mosso dalla preoccupazione che i lettori, poco attratti dal tema, avrebbero potuto passare oltre. Ho cercato di essere divertente, citando autori di successo, fatti leggeri realmente accaduti come quello dei ladri di meloni che, per non destare sospetti, si sono finti amanti. A distanza di qualche tempo dall’uscita del libro devo dire che i riscontri più positivi sono arrivati da persone distanti dal mondo agricolo a cui sono piaciuti gli aneddoti raccontati e l’approccio divulgativo.
Nel libro parli di pere e pesche, di cui l’Emilia-Romagna è tradizionalmente uno dei maggiori produttori nazionali. Negli ultimi anni però il rischio che di questi frutti rimanga soltanto il ricordo è più che concreto. Tanto per citare due dati, dal 2017 al 2021 la produzione di pere è calata del 40% e la superficie del 15%. Questo declino, apparentemente inarrestabile, si può arginare in qualche modo, secondo te?
Per quanto riguarda le pesche, la situazione critica va avanti da più di vent’anni, a causa della concorrenza del sud della Spagna, dove si è investito per tempo su svariati fattori competitivi e su nuove varietà. Un esempio è la varietà piatta, la cosiddetta tabacchiera, inizialmente selezionata in Romagna ma poi brevettata e prodotta in Spagna. Il paese iberico ha dimensioni aziendali maggiori rispetto a quelle italiane, una gestione commerciale molto aggregata ed organizzata, costi di produzione inferiori e una proiezione internazionale aggressiva, favorita da aiuti di stato ai limiti del consentito. In Romagna, area da sempre vocata alla coltivazione del pesco, sono state progressivamente perse quote di mercato a causa del permanere di un’eccessiva frammentazione produttiva e commerciale e della scarsa propensione al rinnovamento varietale. A completare il quadro si aggiungono infine le conseguenze del cambiamento climatico.
Nel caso delle pere il problema principale è l’insufficiente investimento sull’innovazione varietale. In particolare verso varietà in grado di incontrare le nuove domande dei consumatori e maggiormente resistenti all’effetto distruttivo della cimice asiatica. La combinazione di andamenti stagionali anomali, indotti dal cambiamento climatico, e dei virulenti attacchi dei parassiti ha prodotto una sequenza di annate disastrose e gli agricoltori stanno progressivamente spostando su altre culture la propria capacità imprenditoriale.
In tutta onestà non so dire se ci sia o meno la possibilità di una ripresa della frutticoltura regionale. Dipende molto dalla possibilità e, soprattutto, dalla volontà del sistema imprenditoriale di innovare la produzione e la competitività. La storia dell’agricoltura ha già visto numerose colture territoriali, considerate da tutti indiscusse eccellenze, diventare improvvisamente marginali per miopia innovativa come, ad esempio, la canapa. L’Emilia-Romagna è stata per secoli una delle aree agricole italiane più vocate e specializzate nella canapicoltura. Tanto che uno dei più importanti commercianti europei di cordame e vele, Benjamin Disraeli, ebreo di origini spagnole e nonno dell’omonimo e più celebre Primo Ministro della Regina Vittoria, si stabilì a Cento, cuore pulsante di questa coltura nella pianura Padana per garantirsi l’approvvigionamento della materia prima e dei lavorati. Tuttavia, dopo poco tempo, nell’arco di qualche decennio, la coltura è completamente scomparsa da queste zone e dall’Italia a causa della concorrenza del cotone americano e delle fibre artificiali, meno costose, e per la ritardata meccanizzazione di un processo produttivo manuale e molto faticoso. Il sistema agricolo reagisce, da sempre, alle crisi spostandosi su nuovi prodotti.
Fra tante eccellenze inserisci il Clinton, il vino prodotto da uva fragola, difficilmente classificabile come eccellenza. Sei un cultore di questo prodotto?
il Clinton, io l’ ho bevuto dai nonni, quando ero un ragazzo, quindi gli sono affezionato. Certo il vino buono è un’altra cosa, ma questa ha il fascino della bevanda illegale dei nonni, vietata fin dagli anni ’30 del Novecento. Vuoi mettere? Negli anni ‘60 e ‘70 in campagna si beveva ancora, questo vino che raggiungeva a malapena i 7-8 gradi, un bruscone che macchiava tovaglie e vestiti, senza alcuna possibilità di lavaggio. Ovviamente parliamo di epoche in cui, soprattutto in campagna, si beveva quel che c’era nelle viti maritate alle piantate e comunque si beveva per riscaldarsi e per ragioni energetiche. Il vino consumato abitualmente non è che fosse molto meglio del Clinton. La legge ne vieta la commercializzazione perché è una vite selvatica molto più resistente alle avversità della vite vinifera. Il timore che ha mosso il legislatore consisteva nel rischio che, questo vitigno, potesse soppiantare o inquinare quelli domestici, con grave danno per l’Italia del vino e del gusto. Resta la possibilità dell’autoconsumo che ha generato un mercato nero delle bottiglie regalate. Una storia per certi versi simili a quella dell’antico pollo romagnolo, animale rustico che dorme sugli alberi e si alimenta razzolando all’aperto. Le sue carni, più dure e sanguigne, purtroppo, non incontrano più il gusto attuale, largamente influenzato dal pollo di allevamento. Il pollo romagnolo resiste grazie a una nicchia di appassionati che lo alleva per amore della razza e della biodiversità.
(prosegue)