Un Giro organizzato con gli amici per gli amici, due giri in realtà, uno lungo e uno corto, per poter far felici un po’ tutti.

Per chi scrive partenza poco dopo l’alba dal colle di Zappolino e pedalata agile e spensierata, con il sole in faccia che illumina l’asfalto grigio della Bazzanese e lo rende dorato.

Ritrovo alla rotonda Biagi, con Casalecchio che si sveglia pian piano, gli amici sono pochi ma di estrema qualità, con un piccolo inconveniente personale. Tutti sceglieranno il lungo e “Noi del Corto” sarà un gruppo composto da uno solo, me medesimo, chi scrive.

Mi metto a ruota dei tre “lunghi”, e in fila indiana, con anche alcuni tratti tirati per benino, arriviamo a Rioveggio e finalmente liberi dal traffico saliamo verso Montefredente.

Il piccolo Borgo appenninico ha trovato nuova vita, grazie al Pub che ormai è diventato ristoro e Pausa rilassante dei ciclisti tosco emiliani, una coca, un caffè, una tigella e un solare sorriso delle belle e avvenenti ostiere.

I ragazzi del lungo riempiono le borracce alla fontana, “Noi del Corto”, cioè io, dobbiamo decidere dove andare. Seguirli ancora un poco, svoltare a Pian del Voglio verso Castiglione e tornare verso la Valsamoggia da Pietracolora, oppure andare verso Qualto e Madonna dei Fornelli.

Il Circuito dei Santuari mi aiuta a decidere, saluto i ragazzi e agile ma con buona lena arrivo a Madonna dei Fornelli. Ma dove è il Santuario?

Attraverso la strada e mi fermo di fianco all’albergo Musolesi mi volto e mi accorgo di essere davanti al Santuario.

Eccolo il Santuario della Madonna della Neve, passato davanti decine e decine di volte non lo avevo mai considerato, e non ne avevo mai conosciuto la storia.

Il Circuito dei Santuari è quindi anche scoperta, una bella scoperta.

Madonna dei Fornelli, Fornelli per la presenza dei Carboni, intenti nei boschi ad accendere piccoli fuochi per fare il carbone, Madonna della Neve perché da sempre fedeli a lei gli edificarono un Santuario per ringraziarla della scampata peste.

Scatto il selfie e riparto verso Trasasso. La strada che va verso Villa Cedrecchia, prosegue a Trasasso e poi fino a Monzuno, è tra le più belle strade dell’Appennino e neanche l’asfalto sconnesso riesce a diminuire il suo fascino. A Monzuno riempio le borracce e mi involo verso Vado, passo dal centro e dritto proseguo verso la Quercia, cominciando a salire verso MonteSole.

In cima non mi fermo come mio solito, ma svolto a destra continuando a salire.

La strada sale ancora cattiva, la lentezza della pedalata mi consente però di ammirare il paesaggio, stupendo, che si estende dall’Appennino romagnolo sulla destra, a quello Emiliano sulla sinistra.

Entro nel bosco e l’asfalto lascia spazio allo sterrato.

La mia Bdc è abituata ad affrontarlo, non è une bestemmia farlo, se affrontato alla giusta velocità, e con la giusta attenzione, la bici non si rovina. Andando verso Casaglia i tratti dove prestare più attenzione sono quelli in cemento per via dei suoi canali di scolo, profondi e traditori. La strada prosegue tra cemento e sterrato e mi fermo sullo sterrato arrivato alla Chiesa di Casaglia.

Non è la prima volta che arrivo qui, sia in bici che a piedi, ma le sensazioni e le emozioni sono sempre le stesse.

Sarà che parte della mia famiglia è vissuta su questi monti durante la guerra, sarà che parte è morta su questi monti, mentre altre parte in questi monti ha trovato salvifico rifugio, sarà che conosco le storie di quei tragici momenti, e conosco bene la storia dell’eccidio avvenuto dentro la Chiesa di Casaglia, ma il silenzio che trovo ogni volta che mi fermo affianco al Cristo, davanti a quelle spighe e a quei grappoli d’uva, mi fa sentire sospeso tra male e bene, tra barbariche azioni disumane e speranze ricostruite dalla cenere.

È un silenzio che si sente, un silenzio profondo che porta pace ma che fa viaggiare nel tempo, un tempo che non si ferma, che a volte torna indietro e a volte deve fermarsi per non ripetere le atrocità passate.

Un silenzio che tutti dovrebbero aver la capacità di ascoltare.

Godo di quel silenzio e vorrei interromperlo suonando la campana alla destra dell’entrata, ma non ne trovo il coraggio. La muovo e l’unico rumore che invade l’aria è il ticchettio dei cuscinetti che dondolano. Un ticchettio molto simile a quello di un orologio che segna il tempo che passa, il tempo che è andato avanti nonostante tante morti e tanto immane dolore.

Ricomincio a pedalare e rompo il silenzio con lo scricchiolio delle ruote sulla ghiaia e la ruota libera che ondeggia in discesa.

Arrivò a Pian di Venola in poco e comincio a salire verso Vedegheto.

Non sono più i tempi dei rapportoni spinti con facilità e via andare a tutta, mezz’oretta per salire a Cà Bortolani, quei tempi sono andati e non so se torneranno mai più.

Ora è il tempo di salire agile e godermi quello che in tanti anni non mi sono concesso di vedere, dai campi verdi di erba Spagna, ai trattori che lavorano per tagliarla e disegnare i campi con linee dalla sinuosità perfetta, al vecchio pozzo che l’edera sta ricoprendo, fino alla bella Vedegheto dall’alto, piccole case solitarie che ne fanno un bellissimo borgo con al centro la sua Chiesa.

Arrivo a Bortolani e non mi fermo, scendo veloce ma rilassato verso Savigno, casa è ormai vicina anche se un vento contrario maledetto mi costringe a raschiare il barile anche in discesa.

135 km fatti, più di 2000 metri scollinati in meno di 6 ore, due Santuari conquistati ed ora in totale sono tre.

Piano piano, con agile passione, spero di riuscire a conquistarne altri, disegnando altri bellissimi giri.

 

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