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Vajont, ricordi e sensazioni

Sono sempre stato interessato alla cronaca e ricordo che fin da bambino mi piaceva ascoltare il Giornale Radio, non c’era ancora la tv.  Ricordo tante notizie, purtroppo le più tristi. Nel 1951 le descrizioni della tragica piena del Po che aveva inondato la zona del delta. Erano quotidiani gli appelli della “Catena della Fraternità”  per aiutare coloro che avevano perso la casa, la terra e purtroppo anche dei familiari. Poi il terremoto del Belice. Uno straziante servizio di un padre che affianco ai soccorritori cercava di fare tutto il possibile per salvare il figlio sotto le macerie. Più recenti i servizi in diretta dai territori di fronte a noi sulla guerra nella ex Jugoslavia: le occupazioni di paesi con gli abitanti ancora ignari di quanto stesse succedendo, le occupazioni improvvise delle caserme, le retate di coloro che fino al giorno prima erano amici e vicini di casa…

Ma il ricordo che mi è rimasto più impresso è stato quello relativo alla cronaca della tragedia del Vajont provocata dalla frana caduta dal Monte Toc. Era il 9 ottobre del 1963. Ascoltavo come solito (ho sempre sofferto di insonnia)  il Giornale Radio di mezzanotte, all’improvviso interruppero le trasmissioni per collegarsi direttamente con inviati sul luogo che raccontavano, quasi trattenendo il respiro e con grande partecipazione, l’inondazione della valle, l’acqua che saliva, le popolazioni di Erto, Casso e Longarone che scappavano verso l’alto tenendosi per mano con bambini in braccio…

L’anno seguente, dovendomi recare a S.Vito di Cadore, passai da quel posto “maledetto”, mi fermai a Longarone, guardai ciò che mi circondava e mi scese un brivido sulla schiena. Vidi passare alcune persone del luogo, avevo l’intenzione di fermarle, di chiedere particolari, di dare un minimo di consolazione, di solidarietà, ma l’espressione del viso di chi incontravo mi frenò…. Avrei corso il rischio di riaprire una grossa ferita non ancora rimarginata, di riaprire dolori ancora vivi…Mi limitai a riguardare…a immaginare a fatica  quanto era successo…una lacrima percorse il mio viso e ripartii…

 

Giorni fa Fabrizio Carollo, scrittore e collaboratore di Reno News, mi ha informato che sarebbe andato in montagna da quelle parti ed allora ho chiesto a lui, molto più giovane di me, di raccontare le sue sensazioni per verificare se fosse cambiato qualcosa….

M. B.   foto Vipradio e comune.casina .re.it

Vajont, settembre 2019
testo e foto di Fabrizio Carollo
Mi sono chiesto tantissime volte, in questi anni, quanto grande possa essere effettivamente il potere delle parole.
Scrivendo quasi professionalmente da ormai quindici anni, con le parole ho potuto scoprire un mondo pressoché sconfinato, in grado di condurmi alla scoperta dei lati di me stesso che non avrei mai conosciuto altrimenti.
Un mondo incredibilmente potente, che può esprimere emozioni profonde, in grado di essere comprese da tutti coloro che le leggono, se appunto le parole sono quelle giuste e quelle dettate dal cuore e dall’esperienza personale.
Non v’è dubbio che il potere della parola sia immenso, ma ci sono occasioni in cui questa mia idea vacilla vistosamente. Giorni nei quali mi trovo di fronte a cose che persino il potere delle parole non può essere in grado di concepire e spiegare completamente.
Cosa si può fare in questi casi? Riflettere a lungo e decidere se condividere quello che si è
provato, quello che si è sentito dentro, fin nelle viscere.
Riflettere senza sosta e chiedersi se veramente le parole, in alcuni casi, non siano fin troppo semplici per tentare di spiegare quello che gli occhi hanno visto e la mente ha provato.
Il potere tanto decantato diventa improvvisamente debolezza e fragilità assoluta, tanto da
arrivare a credere che, qualsiasi cosa si possa scrivere, non riesca a rendere assolutamente
l’idea e anzi possa addirittura diventare pretenzioso e presuntuoso da parte dell’autore.
Vorrei fermarmi un momento, adesso.
Non so come si possa rappresentare un attimo di silenzio, con la scrittura. Forse una riga di
sospensione, di vuoto. Sì.
Camminare sulla diga del Vajont è qualcosa che riesco a descrivere con estrema fatica.
Ciò che rimane ancora vivido è il silenzio. Il tragico silenzio che ancora regna su tutta la valle, interrotto solamente dal fragore dell’acqua che scarica la galleria di bypass, mentre il paese di Longarone, completamente ricostruito, è ancora ben visibile, oltre l’imponente imbuto di roccia, bellissimo e agghiacciante al contempo.
Ogni passo fatto insieme al piccolo gruppo di visita è accompagnato da sguardi di muta rabbia e tristezza, mentre l’immaginazione cerca come può di tornare al passato, durante
quell’apocalittica notte in cui il Monte Toc decise di punire la scelleratezza e la prosopopea
dell’uomo, facendo crollare milioni di tonnellate di roccia nel lago artificiale e produrre la
gigantesca onda che spense la vita di duemila persone innocenti.
Quasi cinquecento erano bambini.
Per quanto ci si possa sforzare, è impossibile immaginare davvero.
Impossibile riuscire effettivamente a sopportare di essere in quel luogo, il nove ottobre del 63. Fa troppo male pensarlo.
Fa soffrire e gridare di rabbia, sapere che ogni cosa era stata prevista, che la tragedia era stata gridata da chi aveva il coraggio di opporsi alla SADE e ogni singola vita poteva essere salvata.
Si cerca di immaginare la vita semplice, immersa nella natura, delle persone che amavano i
loro luoghi e avevano il giusto rapporto di rispetto e reverenza, nei confronti di un paradiso
naturale come le Dolomiti.
Contadini e pastori prima cacciati via e poi uccisi in nome di un progresso scellerato, che non aveva alcun senso di esistere proprio in quella valle, dal momento che la costruzione della diga non era assolutamente necessaria, se non per un malsano desiderio italiano di primeggiare nel mondo, senza considerare la fragilità geologica di uno scenario che già dalla preistoria aveva dettato dure condizioni.
È una giornata senza nuvole e soleggiata, mentre percorro il sentiero della memoria,
affiancato dalle piccole bandiere che sono omaggio alle minuscole vite mai divenute adulte o di quelle rimaste per sempre nel ventre materno.
Il calore del sole e il canto degli uccelli non attenuano l’angoscia e la pesante incredulità che sento guardando l’immensa frana ancora adagiata sul bacino artificiale; settecento anni, cento camion al lavoro ventiquattrore al giorno: questi i tempi, ha detto la guida, per liberare la zona da tutta la pietra, dal fango e dalla terra che è venuta giù.
Ci si sente piccoli, di fronte a tutto questo.
Ci si vergogna di quello che è stato, delle responsabilità e delle colpe che non sono mai state pagate, ulteriore insulto alla memoria di tutte le anime perdute.
Non si cammina lassù concentrandosi sulla percezione della struttura architettonica,
pensando quanto sia stato meglio che la diga abbia retto.
Non si può proprio pensare a questa magrissima consolazione, mentre si percorre la via del
Vajont.
Così come non si può trattenere la commozione e qualche lacrima che, inevitabilmente, riga le guance, facendo il proprio ingresso nel cimitero monumentale delle vittime, sito nella località di Fortogna e recentemente ristrutturato, con la discussa rimozione delle lapidi originarie.
Cippi bianchi ovunque e i nomi delle vittime, in quella giornata soleggiata, nel cimitero
immerso nel silenzio.
Una tragedia immane in un paradiso che lascia letteralmente senza fiato.
Non è giusto che possa essere accaduto. Non è giusto che nessuno abbia pagato.
Frasi ovvie, pensieri comprensibili e condivisi da chiunque abbia visto, letto, sentito e vissuto.
Ma non esistono film o documentari che possano spiegare quello che è successo davvero.
Non ci sono libri che riescano a definire le emozioni.
In questo senso, il potere della parola è davvero ridotto al lumicino, per quanto sia
importante… per quanto sia fondamentale il loro aiuto per ricordare, tramandare e ammonire.
Inimmaginabile.
Straziante.
Devastante.
Sono soltanto parole, alla fine.
Quello che conta sono le emozioni, ciò che sentiamo e proviamo.
Ciò che conta è il coraggio di andare lassù, vedere e ricordare anche senza aver vissuto.
Non importa ribadire i nomi dei responsabili, che sono di dominio pubblico.
Importa ricordare che la diga è ancora là, mezza sepolta dalla natura che ha punito.
Importa ricordare quello che è successo dopo quella notte, la voglia di ricostruire e il desiderio di formare nuovamente una comunità, senza mai lasciarsi alle spalle il dolore e la rabbia.
Senza mai dimenticare.
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