Articolo e foto di Enrico Pasini

 

Quanto può essere diverso un giro fatto nel senso opposto…

Avete mai fatto una strada prima in auto, poi in bici, poi a piedi? Avete notato quanto quella strada cambi, pur rimanendo sempre la stessa, in base a quale mezzo di trasporto usate?

In bicicletta la stessa cosa vale se si affronta un giro prima in una direzione, poi in senso opposto.

Tutto cambia, nonostante la strada, i paesi attraversati, i boschi solcati, le cime conquistate, siano le stesse.

Lorenzo arriva presto a La Cà, parte da Bologna che il sole deve ancora illuminare San Luca, ma con l’afa che ben attanaglia la città.

Quando scende dalla macchina per scaricare la bici, quasi sente freddo tanto pura è l’aria che accarezza i boschi del Corno.

Riempie le borracce ai pozzi, ci salutiamo e partiamo che l’orologio deve toccare ancora le 7:30.

È salito solo, in questo calda giornata di inizio agosto, attratto dal giro al Cimone che avevo fatto il lunedì, con la mia proposta, condita di curiosità, di ripeterlo in senso opposto.

La discesa verso Fanano dopo la Masera è ancora tutta in ombra e quasi ci pentiamo di non aver preso l’antivento, ma ci immagazziniamo tutto il fresco umido della selva del Belvedere, sicuri che ci servirà di lì a poco e sicuramente nel caldo ritorno che ci spetterà pedalare verso il Corno.

Attraversiamo il Leo e inizia la salita verso Fanano, verso Canevare, verso il Cimoncino, verso il Lago della Ninfa, verso Pian Cavallaro, verso la Cima del Re dell’Appennino ToscoEmiliano, il Cimone.

Siamo al diciottesimo chilometro percorso, fatto di cinquecento metri in salita e diciassette chilometri e mezzo in discesa. Da qui in poi, esclusi due brevi tratti dopo Canevare, sarà solo salita, fino ai milleottocento metri di Pian Cavallaro.

E che salita.

Due giorni prima avevo fatto fatica a farla in discesa, e poco me l’ero gustata, cercando di evitare buche, ghiaino e avvallamenti nascosti.

Ma in salita, nonostante la durezza che subito da Fanano urla con pendenze al quattordici per cento, il paesaggio di questa ascesa ci prende il cuore, aiutandolo nello sforzo che è difficile mantenere leggero.

La strada è larga, attraversiamo Canevare che lenta si sta svegliando e ci buttiamo con pedalata agile ma convinta nei verdi campi che colorano il Cimone.

La strada è una serpentina, ci ricorda tanto le leggendarie salite francesi che un mese prima abbiamo percorso alla Granfondo La Marmotte. Ma qui i tornanti, invece di essere gentili e riposanti come sull’Alpe d’Huez, sono un coltello conficcato nelle gambe e l’ultimo, in ordine di ricordo, poco sotto gli impianti del Cimoncino è il più tremendo. Dagli impianti la strada si dimezza, diventa stretta, solcando gli ultimi campi, entrando in faggete decennali che odorano di porcini e galletti, finendo sempre più pendente nella pineta del già affollato Lago della Ninfa.

Noi non ci fermiamo, svoltiamo e sinistra e attraversata la sbarra cominciamo a salire lungo la forestale militare che porta a Pian Cavallaro. Non sono neanche le dieci, la strada è deserta e buia nei primi due chilometri dentro al bosco, calda e luminosa dalla fonte in poi.

Chi scrive sapeva che la compagnia di Lorenzo lo avrebbe portato a soffrire in salita. Dall’alto del suo metro e quasi ottanta, dalla leggerezza dei suoi sessantacinque chili, Lorenzo una volta fuori dal bosco comincia a mulinare un rapporto per me impossibile da seguire.

Lo seguo con lo sguardo salire lungo i tortuosi tornanti che solcano le maestose rocce del Cimone e in cima lo raggiungo mentre scatta foto al Corno Alle Scale avvolto dall’afa,  all’osservatorio sopra di noi e ai cavalli liberi al pascolo vicino al rifugio.

La discesa verso Sestola scendendo da Passo del Lupo sarebbe veloce se non fosse per dei lavori stradali tra il passo e Pian Falco. Sul ghiaino fitto e bagnato, steso da poco, cerchiamo di toccare poco i freni ma di tenere la velocita il più bassa possibile e ci chiediamo se sia intelligente fare i lavori stradali la settimana di Ferragosto con la montagna più abitata e viva che mai.

Sestola è murata di gente, sono da poco passate le dieci e dai bar esce un continuo tintinnare di tazzine e odore di paste appena sfornate. Anche noi ci fermiamo, un ginseng e una salata sono quello che ci vuole per recuperare i millecinquecento metri di dislivello in poco più di quaranta chilometri.

Ma la fatica non è certo finita, scendiamo da Trentino allungando qualche chilometro il ritorno sul fondovalle, poi ricominciamo a salire verso il Corno.

Attraversato il ponte del Dardagna sorprendo Lorenzo e invece di fargli iniziare la salita della Masera, al tornante lo faccio svoltare a sinistra, seguendo l’indicazione, ormai sbiadita dagli anni, per Castelluccio di Moscheda.

Come il cartello anche la strada porta i segni del tempo, e il primo chilometro e mezzo che sale dolce tra querce e castagni, è completamente distrutto. Chiamarlo sterrato sarebbe un vero complimento, ed è un vero peccato che questa strada, che porta verso questo borgo nascosto tra i monti di Bologna e Modena, non sia valorizzata e lasciata andare in quel modo, perché la sua bellezza è speciale.

Nonostante le condizioni disastrose della strada proseguiamo, con Lorenzo che innesta subito un’andatura troppo allegra per le mie condizioni. Conosco bene l’altimetria della strada, percorsa varie volte in inverno in mattina ghiacciate in Mtb, la sua durezza è speciale quanto la sua bellezza.

Ad un tornante, con una piccola cappella sulla destra, la strada si impenna all’improvviso, attraversa e divide i campi che salgono verso la selva, passando i Sassi dei Caroli, l’unica roccia di origine vulcanica presente in questa zona dell’Appennino e fino a poco prima di Castelluccio non molla più, diventando ancor più cattiva nell’ultimo chilometro e mezzo, quando supera il quindici per cento di pendenza.

Farla d’inverno e farla in estate cambia completamente la prospettiva della salita e farla in bici da corsa, invece che in Mtb, la rende quasi più semplice, anche se l’ultimo chilometro tra caldo, pendenza e tafani, rimane comunque assolutamente indigesto.

Alla fontana in paese Lorenzo mi aspetta, mentre un gruppo di ragazzi in stato di assoluto relax, ci guardano increduli. Scambiamo due chiacchere e li lasciamo alla loro tranquillità e continuiamo a salire lungo l’ultimo strappo, cattivo, che porta sulla strada che va a ValPiana.

Scendiamo a Querciola, proseguiamo per Vidiciatico e scendiamo a Farnè.

Lorenzo non si arrende, fatto trenta bisogna far trentuno. Sosta alla fontana e si sale alle Polle del Corno Alle Scale.

Sono altri dodici chilometri di salita, per ottocento metri di dislivello.

I primi due e mezzo che portano a LaCà sono tutti in mezzo al bosco, Lorenzo sale allegro, io mi tengo a distanza di sicurezza, ma salgo comunque con buon passo.

Lo strappo di Cà Tonielli rimane sempre una coltellata alle gambe, ma il falsopiano che porta a Rio-rì fa recuperare bene lo sforzo passato, in vista degli ultimi sei chilometri.

Saliamo chiacchierando lungo i freschi tornanti che portano a Madonna dell’Acero, mentre i Carabinieri della Forestale fermano e controllano che chi ha raccolto i funghi, che cominciano ad abitare nuovamente i boschi del Corno, abbiamo il tesserino.

Non mi accorgo neanche che le chiacchiere sono finite quando inizia la parte finita della salita a Madonna dell’Acero e la pendenza si porta al quattordici per cento costante per tre chilometri.

Mi ritrovo Lorenzo davanti di una cinquantina di metri e lì lo lascio fino alla esse che porta al tornante della Fontana di Evaristo, dove mi sparisce all’improvviso, complice anche un mio impietoso calo.

Lo ritrovo davanti alle Piste, a salita finita, scattarmi una foto, distrutto ma soddisfatto dell’impresa compiuta.

Scendiamo veloci verso LaCà, la stanchezza è spenta dalla fame e arrivati alla Dispensa scendere dalla bici, sedersi al tavolo e trovarsi davanti due birre e un tagliere di affettati con tigelle, è naturale come l’acqua che sgorga fresca dalla fontana di fianco alla Chiesina.

Un brindisi, un altro e un altro ancora, l’analisi del giro e la volontà di ripeterlo, implementandolo con una salita in più e con una compagnia più numerosa, è la conclusione perfetta di una giornata sui pedali che porta a casa 110 km e 3000 metri di dislivello.

Chilometri baciati dal sole e accarezzati dal vento umido di un Appennino magico, tra Corno e Cimone, che non tradisce mai!

 

 

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Un commento

  1. Bel racconto di vita vissuta sulle nostre splendide zone. Questi posti si possono benissimo visitare a piedi o in MTB. Che le strade siano in fase di disfacimento basta vedere la SS 64 Porrettana da Sasso Marconi al bivio per Marano. Purtroppo il camminare a piedi sui sentieri, percorrere strade che in passato hanno transitato mercanti, militari e pellegrini verso la Toscana, sembra sia cosa estremamente fastidiosa a chi dovrebbe ripulire sentieri e mulattiere. La cultura non è di tutti ed anche i notevoli ritorni economici dei padibus calcantibus non sono graditi.

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