Da tempo leggo delle richieste da parte di ristoratori ed albergatori di personale per le proprie attività. Si parla in gran parte di camerieri/e, cuochi/e ed aiuto cuochi/e. Non credo, specialmente per le ultime due categorie, che si possa pensare a sottopagare tali occupazioni. Anche per camerieri/e, se si hanno persone capaci sarà meglio dar loro uno stipendio dignitoso, ricordando che è il tipo di personale a contatto con la clientela e che, possiamo dire, è il primo biglietto da visita del ristorante o dell’albergo. Mi soffermo di più sulle altre due figure, quella del cuoco e dell’aiuto cuoco. Tengo a precisare che ho fatto una certa “scuola” in famiglia avendo collaborato con i genitori, mamma specialmente, nella gestione di due ristoranti e tre alberghi e di un ulteriore ristorante per oltre dodici anni. Ed inoltre anche la nonna materna era una cuoca piuttosto capace e, spesso, oltre darle una mano, apprendevo certi piatti che potrei definire “storici”. A mio modo di vedere, un cuoco lo considero un “artista”, cioè una persona che, oltre ad aver appreso le basi del fare, dia sfogo alle sue capacità “creative”. Era così per chi andava a bottega di un grande pittore o altro artista. Doveva imparare i “trucchi” del mestiere, essere padrone del FARE e poi, e qui nasce la differenza fra il piatto esecutore e quello che ci mette del SUO, iniziare a camminare con le proprie gambe e con il proprio estro. Anni fa, un amico, un po’ più in là con gli anni del sottoscritto, mi disse che la differenza fra un “Cuoco” ed un “Cioccapiatti” (termine bolognese che definisce un esecutore di ricette da quattrosoldi) lo vedeva specialmente negli orari che questi dedicavano al proprio lavoro e nel metodo di esecuzione. Secondo lui il “Cioccapiatti” lavora in cucina il tempo strettamente necessario per approntare un menù o poco di più. Il vero “Cuoco” invece non ha orario, a suo dire, può trovarsi tra i fornelli ad orari antelucani o estremamente tardivi per provare una nuova ricetta, modificarne una già in uso, sperimentare soluzioni ed accostamenti non ancora impiegati ed altro ancora. Alcuni anni or sono, esplose la moda della Nouvelle Cuisine con proposte ed accostamenti, oltre che presentazioni, aventi uno spirito di novità e di uscita dai soliti binari. Come in tutte le “Rivoluzioni”, anche in quelle gastronomiche, vi sono coloro che affrontano le problematiche alla radice ed una nutrita folla che vive sulle apparenze. Tanto per fare un parallelo con l’arte figurativa, nel 1917 Marcel Duchamp prese un orinatoio chiamandolo Fontaine, il capostipite dei Ready-Made. Da lì iniziò un proliferare di bidet, water, vasche da bagno e chi più ne tirava fuori più ne metteva. Il gesto di Duchamp aveva ben altre motivazioni, che lasciamo perdere qui. Quindi la stessa Nouvelle Cuisine si trovò ad affrontare un analogo percorso. Piatti, nel senso ceramico del termine, di diametro inusitato con al centro o, ad un bordo, una quantità risibile di cibo con definizioni ed accostamenti insoliti. Ciò che mancava, spesso, era riconoscere che il motivo fondamentale di chi si sedeva a tavola era saziare l’appetito. Certo, una bella veste estetica, degli abbinamenti di sapori e gusti insoliti sono cose importanti, ma se a tavola ti fanno vedere il celeberrimo quadro di Annibale Carracci il “Mangiafagioli” e si pensa che con quella visione tu ti sia saziato, bé non penso che si sia sulla strada giusta, anche perché, spesso, il conto era proporzionale al diametro del piatto, ceramico, ovviamente. Quindi? Ben venga l’estro, l’inventiva, il senso estetico, ma ricordandosi che si va a tavola nel 99% dei casi perché si ha fame. Anche l’arte visiva era finita nel vicolo chiuso di un concettualismo assurdo, una mostra di pittura (?) con una ventina di cornici tutte uguali che racchiudevano un foglio bianco. Ritorniamo ai fornelli. Se la richiesta è di un “Cuoco” con effettive capacità, mi sa che il mercato non offra poi tanti soggetti aventi quelle peculiarità cui ho accennato prima. Se scendiamo a livelli più “normali” penso che si trovino persone con buone capacità. Resta però da vedere quale sia il rapporto fra la richiesta e l’offerta di posti di lavoro. Da non sottovalutare il fatto che quando si ha bisogno di 100 per esaudire tutte le richieste e di personale disponibile ve n’è 80 , è inevitabile che, per la legge del mercato, il prezzo da pagare sia più elevato. E questo è un tasto che l’imprenditore deve saper commisurare con molta capacità. Clientela, prezzi di vendita, costi gestionali e del personale e tanti altri parametri che devono essere ben valutati. Resto però meravigliato di questa discrepanza fra offerta di posti di lavoro e personale a disposizione per tali mansioni. Forse le scuole alberghiere non hanno saputo sfornare personale sufficiente ? Oppure che la società reputi “Triviale” scendere a fare il cuoco o l’aiuto cuoco ed, eventualmente il/la cameriere/a ? Che il mito, oggi, sia quello impiegatizio ? Non è casuale che epiteti quali “Contadino” “Pastore” o “Pecoraio” abbiano connotazioni ingiuriose. Forse anche cuoco ed aiuto cuoco più cameriere/a siano termini che stanno scivolando verso la denigrazione sociale ? Che sia più gratificante fare delle fotocopie che coltivare la terra, allevare bestiame o preparare cibi e servirli a tavola ?