UNA CITTA’ IN TRINCEA
Autunno inoltrato del 1944. I fanti della divisione “Flower” (5° armata USA)ricevono l’ordine di bloccare la loro avanzata verso Bologna, e incominciano a scavare le protettive buche nella terra tenera collinare che scende verso la pianura dell’abitato di Monterenzio (raso al suolo). Sicuramente quei soldati d’oltreoceano non pensavano che in quella vischiosa umidità loro e i vari cambi che si sarebbero succeduti nel tempo, avrebbero dovuto trascorrere anche tutto l’incipiente inverno e una piccola parte della primavera 1945. Ma fu così.
E d’improvviso Bologna e i bolognesi si trovarono in prima linea, per ben sei mesi!Con i gendarmi tedeschi a vigilare le dodici porte della cintura muraria fatta erigere dal cardinale Bertrando del Poggetto nel ‘300, con due Brigate nere installate nel centro cittadino, e soprattutto con una popolazione che superava i500 mila abitanti in una città semidistrutta dai bombardamenti aerei; e per di più con oltre 14 mila capi di bestiame condotti sotto le Due Torri dai contadini affluiti in Bologna dalle campagne con le loro povere masserizie e con quel po’ di vettovaglie sottratte alle razzie e alle vicissitudini della Guerra.
Ovunque vi era gente, moltissimi profughi; perfino nei palchi rimasti miracolosamente indenni del bombardatissimo Teatro del Corso, tanto caro agliamanti della lirica e delle rappresentazioni dialettali.
I partigiani della montagna erano in grande parte scesi in città o avevano varcatola linea del fronte: i combattenti delle Brigate 36° e 62°, che si erano collegati con gli americani si arruolano poi nei due reggimenti del gruppo di combattimento “Cremona” e finirono la guerra nel Veneto, altri partigiani rimasero in forza con ledivisioni statunitensi, scendendo poi con gli “Yankee” verso Bologna nei giornidell’offensiva finale.
Intanto, le formazioni partigiane “cittadine”, soprattutto la 7° GAP “Gianni” e la 1° “Irma Bandiera”, cercavano di rafforzare le loro file in attesa dell’agognata liberazione.
Una grande città, quindi, praticamente in trincea, super affollata, con grandissimiproblemi del cibo, dell’acqua, del gas, dell’energia elettrica, della promisquità talvolta, delle medicine introvabili. Mucchi di letame, belati, muggiti, grugniti salenti dalle cantine e scendenti anche dai primi piani dei palazzi dell’antica nobiltà bolognese: volti smagriti in giro e poche pance voluminose. Freddo e fame per quasi tutti ma, cosa ancora da studiare, per tutto quel periodo straordinario neppure un’epidemia, nemmeno un’influenza collettiva!
Dal bombardamento aereo del 12 ottobre 1944 (gli alleati specialisti hannoaffermato che in Italia fu secondo solo a quello che distrusse la storia Abbazia diMonte Cassino), le bombe non piovvero più dal cielo fino all’aprile del 1945: i petroniani poterono quindi dormire sonni abbastanza tranquilli, se si esclude il patimento dello stomaco vuoto (tranne per chi poteva avvicinarsi alla “borsa nera”) e la paura di tanti per i continui scontri, soprattutto nelle ore notturne,fra i partigiani e i nazifascisti (indimenticabili le spasmodiche ore delle battaglie di Porta Lame e della Bolognina del 7 e del 15 novembre) che ravvivano la notte chiusa e silente nella morsa del coprifuoco. Di notte, fra l’altro, i bolognesi insonni potevano vedere la bianca luce delle fotoelettriche americane che illuminavano il fronte a giorno: rade le volte in cui sulla città pioveva una granata delle tante spedite dalle fitte batterie USA che assediavano Bologna a semicerchio, ma assai chiassosa l’esplosione.
Intanto nella cantina dello stabile di Via San Vitale n. 57, il radium sottratto alla cupidigia tedesca (mezzo grammo, valutato nel 1945 oltre un milione di dollari dell’epoca) emenava una pallida luce: lo custodiva il dottor Filippo D’Aiutolo, esponente del Partito d’Azione, a suo rischio e pericolo, sia per le nocive radiazioni e soprattutto per il rospo malamente digerito dai tedeschi.
Si viveva alla meglio, tirando alla fine della guerra, spesso con il cuore in gola.Non erano molti i lavoratori impegnati, parecchie le fabbriche gravemente colpite dai bombardamenti, come la Ducati di Borgo Panigale (nel 1943 arrivò a contare quasi settemila dipendenti, al servizio di oltre quattromila macchine utensili) che nel giro di un’ora, il 12 ottobre, venne rasa al suolo.
Per chi aveva un’occupazione salari e stipendi bastavano a malapena per sopravvivere: dalle duemila alle tremila lire mensili, con l’olio che costava alla “borsa nera” 800-1.000 lire il litro e la carne, non di prima qualità, 250/300 lire il chilogrammo. I più stringevano la cinghia ma tennero botta arrangiandosi alla meglio, mangiando molta verdura anche di bassa condizione, scaldandosi, i più attivi, con le traversine dei binari della oramai inservibile stazione ferroviaria o segando gli alberi dei viali e dei giardini.
Ma anche il durissimo inverno giunse agli sgoccioli, con i primi effluvi della primavera ai petroniani parve di odorare anche il dolcissimo profumo della liberazione. La possente macchina bellica degli Alleati si mise in moto verso le idi d’aprile, in terra e in cielo, molto rombando.
I partigiani bolognesi erano pronti all’insurrezione da diverse settimane. Con gli Alleati si era concordato che l’ora “X” sarebbe scattata al momento della ricezione del radio messaggio: “All’ippodromo ci sono le corse domani”. A tale fine si recò Sante Vincenzi “Mario” a Firenze per conferire con il maggiore Charles Macinthos, ufficiale di collegamento tra le forze partigiane e gli Alleati. Questa frase significava che era iniziata l’offensiva generale. Ma i repubblichini avevano catturato, il 20 aprile, vigilia della libertà, il portavoce del CUMER (comando unico regionale dei partigiani dell’Emilia Romagna) Sante Vincenzi e con lui un esponente della resistenza Giuseppe Bentivogli: entrambi furono assassinati. Nella notte del 20/21 aprile i tedeschi scendendo lungo la via Emilia imboccarono con il grosso delle loro forze i viali della circonvalazione bolognese cercando di abbandonare al più presto la città, che già scottava alquanto. E con loro fuggirono i repubblichini.
Mancando il coordinamento previsto, l’azione partigiana potè svolgersi all’interno della città solo per improvvisata iniziativa individuale di gruppi comunque decisi a far sentire al nemico in fuga la loro presenza. Vennero occupati gli edifici pubblici principali, il Municipio, la Prefettura e la Questura, e via via le altri sedi come gli ospedali.
Maggiore incisività ebbe invece l’attacco partigiano nella lontane periferia e nella “bassa”, ove operavano diverse brigate come la 4° Venturoli, la 5° Bonvicini, la 2° Paolo. Anche nella zona della Bazzanese il nemico fuggiasco dovette subire gli attacchi dei partigiani delle Brigate “Bolero” e “Santa Giustina”, operanti nel territorio collinare appenninico.
Nella mattinata di sabato 21 aprile reparti Alleati e dei gruppi italiani di combattimento entrarono in Bologna accolti festosamente dalla popolazione. Tra i primi nel centro cittadino i soldati polacchi del 2° Corpo, le rappresentanze dei gruppi “Friuli”, “Folgore” e “Legnano”, bersaglieri del battaglione “Goito”, gli arditi del 9° reparto e i combattenti della “Brigata Maiella”. Dalla Porta Santa Stefano giunsero gli americani, con i loro potenti mezzi corrazzati, i Sherman da trenta tonnellate, che si radunarono in Piazza Maggiore. Alleati, soldati italiani e partigiani vennero festeggiati a lungo dai petroniani.
Successivamente dal balcone di Palazzo d’Accursio, alla folla che gremiva gli spazi della piazza lasciati liberi da carri armati, parlarono Antonio Zoccoli, presidente del C.L.N. regionale, il sindaco Giuseppe Dozza e il prefetto Gianguido Borghese, entrambi designati a quelle cariche dal C.N.L.. Questore venne nominato Remolo Trauzzi mentre Giorgio Melloni ebbe la responsabilità della Deputazione provinciale, e Massimiliano Alberigi Quaranta ebbe l’incarico di dirigere la commissione economica regionale.
Mentre i bolognese esultavano per la liberazione, sul muro di Palazzo d’Accursio ifamiliari dei caduti per la libertà cominciarono ad affiggere le foto dei loro congiunti morti in combattimento, nei lager, impiccati, fucilati dal nemico nazifascista. Oggi la grande bacheca di bronzo e cristallo racchiude i volti dei Caduti nella Resistenza, ed è indubbiamente il più coinvolgente messaggio di pace e di libertà che porge ai passanti il centro storico di Bologna.
Questo il contributo dei bolognesi alla lotta di Liberazione caduti 2.064, feriti e mutilati 945, vittime civili delle rappresaglie nazifasciste 2.351.
Dal 16 luglio 1943 al 18 aprile 1945 Bologna subì oltre cinquanta bombardamenti aerei, diurni e notturni. I morti accertati ufficialmente risultano 2.141, ma sonocentinaia i dispersi. Su 280 mila vani ben 38.500 rimasero totalmente distrutti, 16.500 quelli semidistrutti, 66.000 i vani danneggiati; quindi, danneggiato, distrutto e semidistrutto il 43,20 per cento della nostra città.
Nella serata del ventuno aprile un aereo tedesco sganciò alcuni spezzoni su Bologna, morì un cameriere del bar in angolo di via San Vitale e via Torleone.
Il venticinque aprile successivo, i partigiani bolognesi consegnarono agli Alleati le armi che avevano conquistate combattendo l’invasore e i suoi sottopancia in camicie nera.
Lamberto Bertozzi
ph dalla “Collezione Luca e Lamberto Bertozzi”