Solo a sentire il titolo di questo capostipite operistico pucciniano qualunque melomane sfegatato o anche semplice conoscente della musica lirica non può che entrare in fibrillazione all’idea di poter assistere alla messa in scena della composizione più celebre del Maestro di Torre del Lago.
Infatti già la grandissima quantità di pubblico presente ieri sera (29 luglio 2020, ndr.) all’arena “Rufus Thomas” per l’esecuzione di quest’opera era segno di un successo annunciato. Quasi 250 persone infatti erano pronte ad assistere allo spettacolo.
Ma “entriamo” nel vivo della serata:
Il primo atto si svolge in questa “chiesa”, nella quale lo spettatore viene proiettato come se fosse lui stesso sulla porta di ingesso, con un sapiente gioco di luci e ombre infatti non è stato necessario l’utilizzo di grandi o ingombranti elementi scenici per dare l’idea degli spazi (anche se ovviamente il “Theater of Mind” è stato più che necessario). Tutta la prima parte, fino all’ingresso della cantoria, è stato quasi come se il regista ci immergesse in un piccolo “salotto” all’interno della chiesa, in un angolo tra l’ingresso nella suddetta e la Cappella Attavanti.
Con l’entrata in scena del Coro prima, e di Scarpia dopo, l’inquadratura generale sembra allargarsi, ma mai di troppo, proprio per non rischiare di dare idee da una parte già viste di una grande chiesa, e dall’altra di una scena non troppo ricca di elementi fissi.
Il Te Deum diventa quello che quindi può essere solo in una visione così “di taglio” di questa regia, ossia una preghiera quasi “feriale”, alla quale assistono in pochi fedeli (o assai devoti, o estremamente bigotti, come nel caso di Scarpia, più precisamente).
Il Secondo atto trova, nell’intimità della casa di Scarpia (Palazzo Farnese, ndr) un senso molto più ideale nella visione già descritta poc’anzi dal regista: ossia un grande tavolo nero (decisamente troppo grande all’apparenza, per una persona sola, ma che in realtà incarna l’enorme ego e personalità malefica del Barone), pochi elementi di arredo e un grande stemma pontificio, il quale funge da “spada di Damocle” per ricordare potere e doveri del padrone di Casa (e dei suoi “ospiti”). L’uso sapiente delle comparse rende tutta la prima parte del secondo atto molto interessante e fluido, dove appare chiaramente che Scarpia non sia che un burattinaio, al quale tutti obbediscono ad un suo semplicissimo cenno.
La scena della tortura è densa, tesa, esattamente come deve essere, e più ci si avvicina all’atto finale più la figura di Scarpia esce da quel ruolo di burattinaio per apparire come l’uomo viscido e mostruoso che è in realtà. Un uomo che però quando viene pugnalato risulta essere come tutti davanti la morte: terrorizzato. Non cerca di difendersi, cerca solo la fuga e la salvezza da coloro che ha sempre comandato a bacchetta, ma che non si trovano lì per suo stesso volere.
Se Scarpia passa da essere stoico, quasi immobile a “esagitato”, la sua controparte positiva, Tosca, fa il percorso opposto: da donna scombussolata dagli eventi, trascinata dalle emozioni terribili scatenategli addosso dalla visione orrenda della tortura sul suo Compagno, diviene fredda, calcolatrice (Stupendo il “Quanto”-“Il prezzo” detto parlato, non cantato), pur di salvare Mario e se stessa. La scena dell’omicidio vede quindi il totale ribaltamento dei due ruoli: ivi Tosca è lapidaria: l’angelo della morte che con quasi fredda indifferenza si scaglia contro il tremante e terrorizzato Scarpia.
Al centro delle due figure si pone Cavaradossi, simbolo perfetto del patriottismo che caratterizza l’opera (perché ricordiamo che sì, al centro c’è l’amore tra Mario e Tosca, e l’odio per il primo da parte di Scarpia, ma in realtà il vero motore della vicenda è tutto ciò che accade fuori Roma: la discesa di Napoleone in Italia e quindi lo scontro tra reazionari e sostenitori del Dittatore francese). Mario poteva cavarsela senza troppi problemi, visto che Tosca aveva rivelato la posizione di Angelotti, ma lui imperterrito gira il coltello nella piaga di Scarpia alla notizia della vittoria di Napoleone, facendo sì che, consapevolmente o meno, si stia condannando a morte da solo.
Il Terzo atto è forse quello che più di tutti a livello scenografico cade, non dando elementi o indizi sul luogo in cui ci si possa trovare. Però l’idea del regista aiuta a superare questa “defaiance”, mostrando quello che infatti è il terzo e ultimo atto: un lungo momento d’amore prima a distanza (con l’aria “E lucean le stelle”) e poi ravvicinato tra Mario e Tosca. Il tutto culminante con la fucilazione di Cavaradossi e il gesto estremo di Tosca, la quale, prima convinta che tutto ciò che ha fatto fosse servito a salvare il suo compagno, si vede crollare poi tutto addosso, e con “Scarpia, avanti a Dio” non può che constatare quanto costui sia sì morto, non ottenendo il suo amore carnale, ma in realtà vincendo su tutta la linea, avendola “truffata” in maniera così palese, uccidendo Cavaradossi come ha sempre voluto fare e “perseguitando e gettando via” la “cosa bramata” (citando lo stesso Scarpia).
La regia di Lorenzo Giossi ha quindi colpito in pieno lo spettatore con la sua idea, chiara, precisa e decisa, sostenuta da un comparto luci veramente stupefacente e soprattutto (se non solo) da un’idea di costumi, realizzati e ideati dalla veramente talentosa Ilaria Giossi, veramente apprezzata, dove ogni personaggio era caratterizzato da colori, linee e forme veramente ben definite e caratterizzanti, senza mai cadere nel già visto e nell’ovvio.
Il cast è stato quindi l’elemento fondante e parallelo di questo grande successo:
Andando in ordine “crescente”, abbiamo visto uno Spoletta (interpretato da Alberto Pometto) che può aver fatto alzare alcune sopracciglia, ma in maniera positiva: scenicamente molto presente, incisivo e determinante, più di quanto la parte musicale possa effettivamente dare.
Luca Gallo, basso, lo abbiamo potuto ammirare in maniera camaleontica su ben tre ruoli differenti: dal povero Angelotti, miserabile, a pezzi, devastato dalla prigionia, fino al cinico carceriere, passando anche per Sciarrone, il cameriere di Scarpia. Gallo caratterizza sia vocalmente che scenicamente tre personaggi “minori” ma dal notevole peso scenico e vocale (specie Angelotti, ça va sans dire).
Giacomo Contro, baritono, interpreta la parte del Sagrestano, che seppur relegata al solo primo atto, è forse l’unica parte “semi seria” di tutta l’opera, che aiuta lo spettatore a passare da un clima più “quotidiano” della vita della gente comune (E sempre lava) a quello che è il vero clima di terrore instaurato da Scarpia, proprio con l’ingresso di quest’ultimo e dell’interrogatorio al povero Sacrista. Un ruolo che non dovrebbe mai cadere troppo nella macchietta, e che Contro appunto per fortuna, ce ne salva, realizzando sì un Sagrestano leggero, ma anche disperato e terrorizzato davanti a colui che “fa tremare tutta Roma” (semi cit.). Musicalmente e vocalmente è pronto e saldo nella sua parte, che, seppur non presenti vocalmente momenti di spicco o di slancio, è sicuramente tra i comprimari il più difficile musicalmente, sopratutto nella scena con la Cantoria.
Marzio Giossi, baritono è il “nostro” Scarpia: come detto prima, l’idea di un Barone che tiene le fila, che muove chiunque o qualunque cosa con un solo gesto viene perfettamente interpretata dal cantante bergamasco, il quale, con tecnica sicura, precisa, inossidabile rende uno Scarpia vocalmente incrollabile e saldo, che agisce con pochi gesti, sguardi, ma precisi. Giossi riesce quindi con la sua capacità sia scenica che vocale a bilanciare un personaggio tra il saldo, cinico, machiavellico ad uno più carnale, sadico, appassionato e violento. Nel primo atto, in particolare con l’interrogatorio sul povero Sagrestano rappresenta il potere, la sua totale invincibilità, così come nel secondo atto, per tutta la parte iniziale, fino alla “Cantata”, dove appunto comincia ad avvenire questa mutazione, da personaggio “nell’ombra” a colui che veramente, in prima linea, frontalmente e apertamente tiene in mano e decide la vita altrui. Non possiamo non menzionare la sua morte, che, già descritta prima, si può riassumere in un solo aggettivo: caravaggesco. Un vero pugno nello stomaco (ma positivo) per il dramma che ha fatto trasparire.
Alessandro Goldoni, tenore, è il protagonista maschile: Mario Cavaradossi. Un soggetto che passa, mutevole come la natura umana, senza alcun problema dall’essere un fervente politico ad un amante appassionato, da un simpatico bonaccione ad un grande artista. Goldoni per i primi due atti riesce a tenere salda l’idea di un uomo ricco di principi, di valori e affetti, ma è all’aria “E lucean le stelle” che estrae il suo asso nella manica, sia vocalmente che scenicamente: con il “nulla” che lo circonda, con la morte che lo attende falce in mano, Goldoni affronta questa scena saldo e sicuro, trascinando, ammirato, il pubblico.
Renata Campanella, soprano, è l’indiscutibile e assoluta Star della serata: come è giusto e doveroso che sia. Porta in scena una Floria Tosca assolutamente perfetta, impeccabile, senza mai sporcarla con inutili facezie o protagonismi vocali e scenici. La sua è una Tosca cristallina, diamantina.
Così come pulita da una parte, risulta ricca e appassionata dall’altra, con un timbro incrollabile, omogeneo e saldo. Ascoltare la sua interpretazione è stato come guardare attraverso un rubino prezioso: rosso di passione e perfetto sotto ogni punto di vista. E punta di questo diamante è stata la sua “Vissi d’Arte”, che ha strappato applausi scroscianti per un’interpretazione che a Porretta non si dimenticheranno per molto, ma molto tempo.
La direzione del Maestro Stefano Giaroli, con la sua orchestra sinfonica delle Terre Verdiane, è stata magistrale: un gesto sicuro, saldo, che ha portato da una parte con saldo vigore e sicurezza i cantanti attraverso le pagine pucciniane (che sappiamo non essere per nulla facili) e dall’altra ha immerso il pubblico nelle atmosfere romane, che siano quelle grandiose e massicce del Te Deum o quelle profane, più intime, dalla canto del pastore (tra l’altro interpretato a sorpresa dalla stessa Campanella) alla Cantata romana. Il gesto sicuro, preciso del Maestro ha portato quindi al pubblico porrettano una Tosca grandiosa e intima allo stesso tempo, valorizzando a 360° lo spartito di Puccini, senza mai uscire da ciò che il compositore richiede, valorizzando anche tutte le voci sul palco.
Il coro Euridice, preparato dal Maestro Pierpaolo Scattolin, può sembrare a chi conosce poco la musica, un po’ sacrificato nei pochi interventi che l’opera gli richiede, ma in realtà riveste un ruolo assai importante nell’opera. Dalla quotidianità della Cantoria e della Cantata Romana, alla solennità del Te Deum, il coro rappresenta il personaggio “Invisibile”, ossia il popolo romano.
Se il pubblico vede come reagiscono le “personalità” di spicco, come sono i 3 protagonisti, come fa a sapere come il popolo, la gente “normale” percepisce i grandi avvenimenti? Lo fa tramite personaggi come il Sagrestano e tramite il Coro, che, più di tutti reagisce in maniera dirompente alle notizie. La scena della cantata, forse quella musicalmente più difficile, viene realizzata spaccando il metronomo quasi, grazie ad una ferrea preparazione del coro (ringraziamo quindi doppiamente il suo Maestro preparatore), ad un’ottima sinergia con il Sagrestano, e ovviamente alla direzione del Maestro Giaroli.
Il coro Euridice può non sembrare adatto a queste opere, ma come già visto anni scorsi, con Elisir D’Amore e Cavalleria Rusticana in particolare, è un coro talmente duttile che può adattarsi anche a repertori così “spinti”, senza troppi problemi.
In conclusione a questo già fin troppo lungo commento dello spettacolo non possiamo che ringraziare tutte le maestranze, e in particolare l’Associazione SANTA MARIA MADDALENA, che anche quest’anno ha scommesso e vinto su un progetto che UNA VOLTA poteva apparire ardito, ma che ormai si è consolidato nell’orizzonte culturale e sociale porrettano: portare l’opera lirica anche tra i nostri monti; e non ci resta che completare il tutto con un breve, già detto, ma mai inutile: ad Majora!