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ALTO RENO TERME – Linguaggio inclusivo per un mondo inclusivo: il ruolo della comunicazione nella lotta alla discriminazione

L’uomo è un animale sociale. E alla base delle relazioni sociali sta la comunicazione. Sia essa sociale o interpersonale, è la comunicazione che permette lo scambio di informazioni e, quindi, la dichiarazione della nostra identità. Il solo fatto di “esistere in un certo modo”
trasmette a chi ci sta intorno chi siamo, e per quanto quella non verbale sia la parte più
importante della comunicazione vorrei parlare di quella verbale, decisamente più centrale in
contesti come quello di internet e dei social network.
Stabilito che è il linguaggio lo strumento per comunicare con gli altri, segue che qualcosa, per esistere, deve esistere anche nel linguaggio. Se alla nostra lingua (non intesa come idioma ma come mezzo comunicativo) manca un pezzo, mancherà un pezzo anche alla nostra concezione della realtà, ed è da qui che cominciano l’oppressione e la discriminazione di genere.

Il manifesto della comunicazione non ostile e inclusiva

Faccio un esempio: quello della politica è stato un mondo a lungo esclusivamente al
maschile, fino a cinquant’anni fa non solo ministre e sindache non esistevano, ma neanche i
termini “ministra” e “sindaca” esistevano. Ovvio: il femminile di un sostantivo non è difficile
da costruire, ma di sicuro questi nomi non erano di uso quotidiano, ciò ha ostacolato in primo luogo l’ammissione delle donne in politica, e successivamente le ha poste in svantaggio rispetto agli uomini, portando spesso queste donne a negare tratti di loro perché considerati troppo femminili, e in quanto tali non professionali, negando essenzialmente il loro diritto all’autodeterminazione e inibendo la loro libertà di espressione. Una vera e propria violazione dei diritti umani. Questo è un meccanismo “ricorrente”, gli stigma non si abbattono con uno schiocco di dita, ma non vuol dire che non possiamo farci nulla.

Igiaba Scego, scrittrice italiana di origini somale, ha raccontato di come per lei la letteratura sia uno strumento per creare empatia, perché crescendo non si è mai riconosciuta nei protagonisti letterari o televisivi a lei proposti, ed effettivamente la rappresentazione non umiliante nei media di personaggi femminili (e non-binari) è un’arma potente contro la discriminazione di genere, anche senza un vocabolario fornito dei termini giusti, comunicare l’esistenza di figure oppresse/minoritarie crea il bisogno di questi vocaboli per identificarle. Non è però necessario avere un grande pubblico per combattere la discriminazione, anzi, è per certi versi più efficace impegnarsi nella realtà quotidiana, spesso il cambiamento avviene proprio “dal basso”. Possono sembrare piccolezze, ma utilizzare un linguaggio inclusivo rende plausibile il diverso alle orecchie di chi ci ascolta e agli occhi di chi ci guarda, e crea spazi sicuri per chi si sente escluso.

Per linguaggio inclusivo si intende tutto ciò che spazia dall’esclusione di termini apertamente offensivi dai propri messaggi (“persone con autismo” piuttosto che
“persone affette da autismo”, o peggio: “autistici”) all’utilizzo di pronomi e sostantivi sia
maschili che femminili, o dall’astensione completa dall’utilizzo di pronomi e sostantivi di
genere (“Ciao a tutt*”, “Ciao a tuttə” o “Ciao a tutti e tutte” piuttosto che “Ciao a tutti”).

Insomma: è questo il punto dell’intervento di Giovanna Cosenza, professoressa di filosofia e teoria dei linguaggi, che, per concludere, aggiunge che il “benaltrismo”, l’atteggiamento minimizzante nei confronti delle questioni trattate perché «i problemi delle donne sono ben altri» è una scusa, in parte perché è spesso un modo spicciolo di zittire l’interlocutore, ma soprattutto perché il cambiamento da qualche parte dovrà pur partire.

 

 Lorenzo Morlino di 4 IT dell’Istituto Montessori – Da Vinci

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