Quelle querce sono lì da qualche secolo.

Duecento anni quella piccola, cinquecento quella grande, le ho sempre immaginate come una porta dei viandanti che a Cà Corrieri cambiavano il cavallo e poi si dirigevano verso il Ducato di Modena, o viceversa verso il Granducato di Toscana.

Insieme a tre bambini, avviati verso il periodo più complicato e pericoloso della loro vita, l’adolescenza, passarono di lì senza neanche notare tanta magnificenza, senza ammirare la danza di quei rami che si slanciavano verso il cielo e che in giornate d’estate passate avevano allietato partite infinite a briscola, o lunghi pomeriggi immersi nei compiti delle vacanze, quando un tavolo in sasso stazionava sotto la grande e le galline di Luigi facevano compagnia e il gallo cantava la sveglia.

Li guardavo attraversare quelle meraviglie e passare accanto a quella che, impropriamente, continuo a chiamare la mia casa, quella che mi ha visto crescere nelle estati e negli inverni, dall’infanzia fino all’adolescenza. La vecchia casa di Luigi e Odo, tutta in sasso dal pratone immenso, ora suddiviso nelle nuove varie proprietà, che ancora risuona delle feste dei giovani del tempo, al giorno d’oggi diventati nonni, che ogni weekend scappavano dalla città per trovare la pace e in parte toglierla a chi quei monti li abitava.

Scesero la piccola discesa e si avviarono verso la fonte del vecchio laghetto, che laghetto non più, ora diventato prato, orto, pollaio.

Erano partiti da poco e la più grande, 13 anni, chiedeva già che ora erano.

“Sono le dieci meno dieci, Elisabetta.”

“E dobbiamo ancora camminare per due ore?”

“Siamo partiti da 5 minuti quindi direi che dobbiamo camminare più o meno un’ora e 55 minuti, escluso le soste..”

“Tu sei pazzo!”

Rimasi in silenzio mentre quello medio, di anni 12, fotografava il becco dell’Aquila sporgente dalla riva sopra Pratignano e spiegava al piccolo di 10 dove si trovava e che qualche anno prima osservò con il binocolo, me e mia cugina, dal terrazzo di casa mentre dall’alto del Becco ci sbracciavamo e urlavamo nel vano tentativo di farci sentire.

“Betta rimani con noi, guarda che foto ho fatto.”

Senza neanche uno sguardo, senza neanche una parola, aumentò il passo e si distanziò di qualche centinaio di metri, quelli che bastavano per non sentire più i due che si passavano la reflex per scattare foto a ripetizione ad ogni masso della Riva.

Guardai la mia compagna e gli diedi la mano, dietro qualcuno ci immortalò in foto, Fede o Lele non siamo riusciti a saperlo, la discussione nei giorni successivi fu abbastanza veemente e probabilmente non si fermerà mai, un po’ come il passaggio di borraccia tra Coppi e Bartali, chi la passò all’altro è un mistero che ognuno prova a spiegare a suo modo.

Poggiolforato distava ancora qualche curva, eravamo ancora sulla strada asfaltata e le cascate erano un miraggio, ma il Dardagna cominciava a fare sentire la sua voce.

“Che ore sono? ”

“Le dieci.”

“È impossibile che siano passati solo 10 minuti.”

“Però Betta è così.”

“Non passano più queste due ore.”

“Non è che se passano due ore arriviamo a destinazione, arriveremo quando saremo alle cascate, potrebbe volerci anche qualche minuto in più.”

“Noi ci arriveremo in due ore.”

“Se continuiamo così poco di più, ma più o meno…”.

“Più o meno più o meno, più o meno un corno.”

“No non andiamo al Corno Betta, andiamo alle Cascate.”

“Ma stai zitto tu, che giornata da schifo!”

E così entrarono a Poggiolforato, con un solo pensiero oltre quello di riempire le bottiglie d’acqua alla fontana, quello che l’adolescenza è proprio un periodo pericoloso…

 

Foto di Enrico Pasini

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