Morire di turismo

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Ho letto della costante fuga da Venezia dei residenti oppressi da un asfissiante turismo. E’ evidente, secondo il detto “Ubi maior minor cessat”, che, dove un aspetto della economia o della società di un sito diventa predominante, tutto ciò che faceva parte, prima, del modus vivendi di tale società, venga progressivamente cancellato. Perché tenere aperte attività commerciali al servizio di una popolazione in calo quando si possono, più redditivamente, trasformare in luoghi di vendita di souvenir o di altri beni appetiti dal turismo di massa ? E così negozi di frutta e verdura, di generi alimentari ed altro, tendono a scomparire obbligando i residenti a demotivanti peripli per rifornirsi. Una esplosione di bar e ristoranti ed, eventualmente, di Mc Donald’s che non rappresentano, di certo, la spina dorsale economica di chi risiede. La cosa riguarda anche realtà socio-economiche di altri siti. Vi sono comuni alpino-dolomitici che, avendo puntato per decenni sulle attività sportive invernali, si sono trovati, nello spazio di pochi decenni, a fare i conti con una realtà in forte cambiamento. La diminuzione di interesse per detti sport, il loro crescente costo, una Crisi Climatica che obbliga, dove possibile, ad innalzare gli impianti di risalita oltre i 2.000-2.500 metri con costi esorbitanti. In molti casi, stendendo un velo pietoso sulla gestione di tali opere, chi le paga e le mantiene è il contribuente. Ma ciò che è più grave, è stato l’effetto sociale e culturale di tale monocultura, ha cancellato, spesso, la storia, le tradizioni, il patrimonio culturale di intere aree. Recuperare ciò che è stato distrutto è molto difficile e, pur potendo, teoricamente, fare affidamento su tale patrimonio per creare un turismo alternativo o complementare a quello invernale in diminuzione o in crisi, manca il capitale umano in grado di potere operare in tal senso. Due o tre generazioni di monocultura hanno fatto sì che coloro che avevano tali conoscenze storico-culturali o siano defunti o siano troppo anziani. Chi ha gestito per tanti anni il turismo non ha, spesso, un bagaglio culturale atto al recupero di tale patrimonio. Tale sconvolgimento non ha colpito solo varie zone alpine-dolomitiche, ma anche in Appennino ci troviamo in una situazione analoga con la prospettiva, dati gli studi in merito, che tra un ventennio o poco più, le attività sciatorie saranno ridotte al lumicino o appartenenti al mondo dei ricordi. Non essendo possibile innalzare le vette appenniniche, specialmente nell’Appennino settentrionale, oltre i 2.500-3.000 metri, vedremo se vi saranno amministratori e operatori economici delle varie zone in grado di utilizzare tutto quel patrimonio storico-culturale-ambientale, spesso unico, che tali aree conservano al fine di creare un volano economico e sociale in grado di trattenere i giovani e apportare benefici economici a chi risiede.
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