Lo studio
L’Emilia-Romagna, tra gennaio del 2020 e agosto del 2021, perde circa 26.000 residenti, invertendo così la leggera crescita dei cinque anni precedenti. La pandemia appesantisce una situazione già critica, in cui le nascite non bastano a compensare i decessi. La popolazione regionale, dal 2015 al 2019, è debolmente cresciuta soltanto grazie a saldi migratori positivi.
Questi dati, insieme a molti altri, sono contenuti in un interessante studio dal titolo La questione demografica in Emilia-Romagna una sfida complessa e urgente, diffuso lo scorso dicembre.
Il lavoro, commissionato da Auser e Spi-Cgil, è curato dagli statistici Gianluigi Bovini e Franco Chiarini, già dirigenti dell’Area programmazione, controlli e statistica del comune di Bologna. L’approfondita analisi è provvista di efficaci rappresentazioni cartografiche interattive che permettono di visualizzare gli indicatori demografici in ogni comune.
Il territorio regionale è, ai fini di indagine, suddiviso in cinque aree: la via Emilia, una fascia di prossimità alla Via Emilia, la pianura esterna, la collina e la montagna. Colpisce come, al primo gennaio del 2020, oltre il 70% della popolazione viva lungo un corridoio piuttosto stretto, sviluppato sulla linea immaginaria che unisce Piacenza a Rimini.
Nei cinque anni precedenti la pandemia, in Emilia-Romagna si sono registrate in media 66 nascite ogni 100 decessi, che si abbassano fino a 48 nella fascia montana. A contrastare lo squilibrio, nello stesso periodo, contribuisce l’attrattività del territorio, generata dalla vivacità del tessuto economico, in grado di produrre saldi nettamente positivi nei movimenti di popolazione interni ed esterni, drasticamente diminuiti nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria e solo parzialmente ripresi nel 2021.
Molti sono gli indicatori utilizzati per misurare il rapporto numerico fra le varie classi di età in cui è suddivisa la popolazione per un unico responso: in futuro, complice l’aumento della vita media, la popolazione regionale vedrà una crescente presenza di anziani, di età superiore ai 64 anni, a scapito dei giovani che saranno sempre meno. L’invecchiamento riguarderà anche la popolazione attiva, come chiaramente espresso dal rapporto fra classi tipicamente in età lavorativa, 30-44 e 45-59 anni. In Emilia-Romagna ci sono, al primo gennaio 2020, 77 persone appartenenti al primo gruppo ogni 100 membri del secondo. Tale valore, che scende a circa 69 in montagna e a 71 nella pianura esterna, non fa che confermare l’ulteriore fragilità sociale delle aree più lontane dalla Via Emilia, destinate a una progressiva marginalità anche sul piano economico.
La montagna bolognese
Restringendo il campo alla montagna bolognese si può evidenziare come la situazione sia migliore rispetto a quella di altre porzioni di Appennino, con particolare riferimento alla montagna piacentina e riminese. Il confronto fra i numeri dei dodici comuni appenninici della provincia di Bologna e il resto del territorio metropolitano rimane però impietoso.
La montagna, che rappresenta circa il 20% del territorio provinciale, è abitata da poco più del 5% della popolazione totale. Nel periodo 2015-2019 ci sono state 43,1 nascite ogni 100 decessi, contro i 64 della media metropolitana.
Tutti gli indicatori segnalano una maggiore presenza di anziani e una minore presenza di giovani, rispetto al resto della provincia con una divaricazione che è, purtroppo, destinata ad allargarsi nei prossimi anni. L’unica nota positiva è rappresentata dal saldo positivo nel rapporto tra ingressi e uscite dal territorio montano: nel periodo 2014-2019 sono arrivati 111,3 cittadini ogni 100 che hanno scelto di andarsene.
L’intervista
Per offrire ai lettori di Renonews un maggiore livello di comprensione delle principali tendenze demografiche, abbiamo posto qualche domanda a Gianluigi Bovini, coautore dello studio.
Nello studio si legge che a fare la differenza fra Italia e altri paesi europei non sono tanto i figli desiderati ma le politiche per la famiglia. Cosa significa?
La Francia da sempre fa politiche familiari più generose, sia in termini di trasferimenti economici che di servizi. Ciò garantisce tutt’ora alla società transalpina un sostanziale equilibrio tra nascite e decessi, con un indice di fecondità prossimo a 2 figli per ogni donna, mentre in Italia siamo attorno ad un valore di 1,3. La Germania, fino a qualche anno fa, era in una situazione difficile, più simile a quella italiana, migliorata negli ultimi anni grazie ad alcuni provvedimenti lungimiranti. Noi, al momento, insieme alla Spagna, siamo tra in paesi in condizioni demografiche peggiori. L’assegno unico, introdotto quest’anno, dovrebbe generare effetti positivi, la cui consistenza andrà misurata negli anni, anche alla luce dei negativi effetti della pandemia che abbatte ulteriormente la natalità. Il rischio è che l’assegno unico risulti tardivo e insufficiente ad invertire la tendenza.
Una cosa è certa: in futuro ci saranno più persone anziane, meno studenti e, soprattutto, meno attivi. Il sistema sociale è destinato a esplodere?
A meno di eventi enormi e poco prevedibili la società vedrà una maggiore presenza di anziani. Il crescente rapporto tra inattivi e attivi può essere gestito agendo su due versanti: da un lato va aumentata la produttività del sistema e dall’altro deve mutare l’approccio individuale, introducendo diffusa consapevolezza della maggiore aspettativa di vita. L’allungamento medio dell’esistenza implica, spesso, una fase finale complicata da problemi di autosufficienza. La sfida investe tutti, attori pubblici e privati, singoli e collettivi. È possibile che, tra 10-15 anni, le aziende facciano molta più fatica a trovare i lavoratori necessari al processo produttivo. Per fortuna, automazione e innovazione possono venirci in soccorso. Lo scenario rimane inedito: per la prima volta nella storia dell’umanità si vive così a lungo. La sfida è coniugare la longevità alla qualità dell’esistenza.
I peggioramenti determinati dalla pandemia sono destinati a durare?
La pandemia ha ridotto significativamente la natalità nel 2020 e 2021, a fronte di un aumento dei decessi nella popolazione anziana e al rallentamentodei movimenti migratori. Se queste tendenze durassero a lungo, saremmo al disastro. Se, come è auspicabile, entro il 2022, al termine di questo ciclo di vaccinazioni, la situazione sanitaria sarà migliorata, potremmo assistere a un piccolo rimbalzo, aiutato dall’assegno unico e dalla ripresa delle migrazioni.
L’immigrazione, in larga parte costituita da persone in giovane età, contrasta l’invecchiamento della popolazione nativa, ma spesso è vista con sospetto. La pandemia sta cambiando qualcosa?
L’immigrazione è la principale leva di contrasto allo squilibrio fra nascite e decessi. Limitando lo sguardo alla regione, i nuovi cittadini possono provenire sia dalle altre regioni che dall’estero. In Emilia-Romagna e Lombardia alcune componenti produttive si sono accorte che senza gli immigrati già oggi, su alcune mansioni, ci sono dei problemi di reperimento della forza lavoro. Occorrono politiche intelligenti, con un livello di apertura ragionata, orientate al reperimento di specifiche professionalità, i flussi devono essere ordinati e gestibili. L’Istat sostiene che, per rimanere in relativo equilibrio demografico, l’Italia ha necessità di 300.000 persone/anno. La realtà ha la testa più dura della propaganda.
Rispetto ad altre porzioni di appennino poste a est e a ovest, la situazione demografica della montagna bolognese è leggermente migliore. Quali sono le ragioni?
L’Appennino bolognese dispone di un fondovalle che continua ad avere una certa vivacità economica, soprattutto nell’Alto Reno. In più, esiste una vocazione turistica non trascurabile e la presenza di una ferrovia che serve tutta la vallata.
Cosa potrebbe contrastare lo spopolamento e l’invecchiamento della popolazione montana?
Per il futuro non si può prescindere dalle infrastrutture fisiche e dal loro adeguamento. Se parliamo della valle del Reno, il raddoppio della tratta fino a Marzabotto e ulteriori interventi sulla strada porrettana credo siano non più rimandabili.
Poi lo sviluppo digitale, con un occhio rivolto all’enorme diffusione dello smart-working, accelerata dall’emergenza sanitaria. Le nuove forme di lavoro potrebbero favorire, almeno parzialmente, il ripopolamento dell’Appennino, con un numero crescente di persone disposte a fermarsi nei centri montani per periodi più lunghi. A determinate condizioni, esiste una fetta di popolazione fluttuante, orientata a dividere la propria esistenza tra città e montagna. Non dobbiamo essere spaventati dal paradosso che sia proprio la zona più anziana e distante dal centro, l’Appennino, a giocarsi il proprio futuro sul terreno dello sviluppo digitale. Vale per il lavoro, vale per la didattica a distanza, soprattutto a livello universitario e vale per la sanità. Servono le reti, la banda larga e la digitalizzazione dei servizi, pubblici e privati, dalla telemedicina al commercio online. Va promossa, allo stesso tempo, la cultura digitale, immaginando interventi di formazione e assistenza per la popolazione anziana. Infine, i cambiamenti indotti dalla pandemia favoriscono il turismo di prossimità da cui potrebbe derivare un ulteriore contributo al futuro delle zone montane. I prossimi decenni sono in salita, inutile negarlo. La consapevolezza delle difficoltà può aiutare ad essere all’altezza delle sfide che il presente ci pone. Il nostro studio è un contributo di conoscenza in questa direzione, ben sapendo che si corre il rischio di apparire lontani dalla realtà, ma non è la prima volta. Limitandosi alla storia recente, la ricostruzione post-bellica appariva un’impresa impossibile, eppure si è realizzata, creando le condizioni del miracolo economico. Il futuro è complesso ma, per fortuna, ancora da scrivere.
Analisi interessante e da meditare. L’unico argomento, che, ovviamente, non fa parte di detta analisi, è il calo, se non crollo, in determinati comuni, del livello culturale. Dico questo perché quando si perde per strada la propria storia, la propria cultura, si perdono le basi di una ripartenza efficiente. Ciò crea delle grosse difficoltà a proporre una più articolata offerta turistica, parlo di quelle località per le quali è fondamentale tale attività. Così avviene che le programmazioni, gli eventuali discutibili sviluppi o mantenimenti di tale apporto economico, vengano decisi in altro loco dove le conoscenze ed anche gli interessi economici vanno in altra direzione. Le mie esperienze sono focalizzate nel Comune di Lizzano in Belvedere e quindi parlo per questo comprensorio. Se si osserva quali siano che conoscenze di coloro che hanno meno di 50 anni in merito al patrimonio storico, ambientale e culturale dei propri luoghi ci si trova dinnanzi, in maggioranza, ad un vuoto quasi totale. Se le proposte per un turismo del 3° millennio devono uscire dalla valorizzazione di tali patrimoni, è evidente che questa comunità sarà sempre più dipendente da scelte e programmi elaborati in altre sedi che con gli interessi e la storia di tale luogo non hanno nulla da spartire. Le conseguenze ? Un continuo arretramento economico , demografico e culturale.